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Università degli Studi di Ferrara
Corso di Laurea Magistrale in
CULTURE E TRADIZIONI DEL MEDIOEVO
E DEL RINASCIMENTO
«L’òme que èri ieu». Jean Boudou (1920-1975)
e l’occitano come metafora
Relatore: Prof.ssa Monica Longobardi
Correlatore: Prof. Paolo Tanganelli
Laureando: Vincenzo Perez
___________________________________
Anno Accademico 2015-2016
�2
�«L’òme que èri ieu». Jean Boudou (1920-1975)
e l’occitano come metafora
3
�4
�A Khaled al-Asaad
5
�6
�INDICE
Breve premessa sull’occitano, lingua viva.…………………………...pag. 9
Scheda biografica di Jean Boudou (1920-1975)…………………….pag. 13
Prefazione………………………………………………………...….pag. 15
Capitoli:
I.
LA TALVERA……………………………………………......pag. 19
II.
PENA DI VIVERE COSÌ…………………………………….pag. 35
III.
IO E L’ALTRO……………………………………………….pag. 53
IV.
LA VIOLENZA E IL SACRO………………………………..pag. 73
V.
LETTERATURA COME MONDO…………………………..pag. 91
Postilla……………………………………………………………...pag. 107
Bibliografia…………………………………………………………pag. 109
Sitografia…………………………………………………………...pag. 117
Ringraziamenti……………………………………………………...pag. 119
7
�8
�Breve premessa sull’occitano, lingua viva
Sans son ouverture à l’autre, une culture particulière est une
prison de l’en-soi, un repliement étouffant, un ressassement
stérile, une castration volontaire. Sans la reconnaissance de
l’autre, une culture dite universelle n’est qu’une tyrannie
répandue, une injustice entretenue, un impérialisme. L’homme
a droit à se désidentifier comme à s’identifier.1
ROBERT LAFONT
Il diritto di impiegare la propria lingua non è stato sempre e universalmente
considerato un diritto umano basilare. Soltanto alla fine del XX secolo la lingua
dei gruppi di minoranza è stata tollerata e finalmente promossa. Come è
possibile? La scelta di una lingua piuttosto che di un’altra non è mai un atto
neutrale, è anzi «un barometro di potere» dei suoi locutori.2
Insomma, si tratta innanzitutto di un discorso politico, di una questione
strettamente connessa ai rapporti di forza che esistono tra i gruppi di persone che
vivono su un territorio. Chi si oppone all’affermazione o alla rinascita di una
lingua lo fa consapevolmente, dunque, perché sa che il rischio è quello di mettere
in discussione uno status quo vigente.3
In Francia la tradizione giacobina riconosce solamente una lingua: il
francese. Tale tradizione, forte tuttora, considera la lingua un irrinunciabile
fattore di coesione e unità nazionale.4 Così si spiegano le difficoltà, quando non i
divieti, che le lingue cosiddette “minoritarie” e “regionali” presenti nel territorio
dell’Hexagone hanno storicamente dovuto fronteggiare.
La Carta europea delle lingue regionali e minoritarie, adottata nel 1992 ed
entrata in vigore nel 1998, è stata firmata ma non ancora ratificata dalla Francia.
Lo stesso vale per l’Italia, che tuttavia nel 1999 ha promulgato una legge in
materia di protezione delle minoranze linguistiche.5
1
R. LAFONT, Prémices de l’Europe, Cabris, Éditions Sulliver, 2007, pp. 258-259.
S. WRIGHT, Il diritto di utilizzare la propria lingua: alcune riflessioni su teoria e pratica, in C. CONSANI, P.
DESIDERI, (a cura di), Minoranze linguistiche. Prospettive, strumenti, territori, Roma, Carocci, 2007, p. 32.
3
Ibidem.
4
J.-M. WOEHRLING, Histoire du droit des langues en France, in G. KREMNITZ (sous la direction de), Histoire
sociale des langues de France, Rennes, Presses universitaires de Rennes, 2013, p. 73.
5
http:/it.wikipedia.org/wiki/Carta_europea_delle_lingue_regionali_o_minoritarie.
2
9
�Nel 2008 nella Costituzione francese fu comunque scritto che «les langues
régionales appartiennent au patrimoine de la France». Nonostante la promessa da
parte di Sarkozy di una legge sulle lingue regionali e l’impegno di Hollande per
la ratifica della Carta europea, la Francia rimane tutt’oggi incapace di superare la
contraddizione tra la volontà di affermare il predominio della lingua francese e la
realtà di un Paese plurilingue.6
Tra le lingue della Francia un posto a parte merita sicuramente l’occitano.
Quella di Robert Lafont – come apprezzabile in esergo – è stata una delle voci
più autorevoli dell’occitanismo, una voce che non esitava a ergersi in difesa delle
diversità. Gli si devono saggi potentissimi come La révolution régionaliste7 e
Décoloniser en France8, in cui l’impegno politico tocca punte accese di denuncia
nei confronti del potere accentratore di Parigi.
Tutto ebbe inizio nel XIII secolo, con la celeberrima e cosiddetta “Crociata
contro gli Albigesi”, di cui lascito letterario è la Canso de la Crosada, oggetto di
un monumentale e recentissimo studio di Marjolaine Raguin, ricercatrice
dell’Università Paul Valery di Montpellier.9
Dietro la facciata di una guerra contro gli eretici, tale “crociata” – che, tra le
altre cose, pose fine all’esperienza della poesia trobadorica10 – nascondeva
pretese economiche e mire egemoniche del Nord della Francia nei confronti del
Sud, finendo con l’instaurare nello stato nazionale neonato un dualismo
linguistico permanente.11
Simone Weil nel 1942 dedicò due saggi ai catari e a quella vicenda storica,
saggi che vennero raccolti sotto il titolo Le génie d’Oc et l’homme
méditerranéeen.12 Secondo la pensatrice, «l’Europa non ha mai più ritrovato allo
stesso livello la libertà spirituale perduta per effetto di questa guerra».13
6
J.-M. WOEHRLING, Histoire du droit des langues en France, cit., p. 86.
R. LAFONT, La révolution régionaliste, Paris, Gallimard, 1967.
8
Id., Décoloniser en France. Les régions face à l’Europe, Paris, Gallimard, 1971.
9
M. RAGUIN, Lorsque la poésie fait le souverain. Étude sur la Chanson de la Croisade albigeoise, Paris, Honoré
Champion, 2015.
10
F. ZAMBON, I trovatori e la crociata contro gli Albigesi, Roma, Carocci, 2011.
11
Id., Le Sud ou l’Autre. La France et son Midi, Aix-en-Provence, Édisud, 2004, p. 5.
12
In italiano L’agonia di una civiltà nelle immagini di un poema epico e L’ispirazione occitana, raccolti in S. WEIL, I
catari e la civiltà mediterranea, a c. di G. Gaeta, Genova, Marietti, 1996.
13
Ivi, p. 19.
7
10
�Ciononostante, il termine “Occitania” è oggi ancora vivo nella coscienza
del Meridione francese, come dimostra un recentissimo plebiscito che lo ha
voluto quale nome della macroregione nata dall’unione del LanguedocRoussillon con il Midi-Pyrénées.14
Forse mai come nel caso dell’occitano la definizione di “lingua regionale”
(per non parlare di quella, già invero abbastanza spregiativa per come suona, di
“lingua minoritaria”) risulta riduttiva, trattandosi di un vero e proprio patrimonio
culturale millenario, prestigiosissimo.
Per dirla con Fausta Garavini, «in lingua d’oc nasce la più antica invenzione
poetica europea», dal momento che «i trovatori si trovano all’imbocco di ogni
grande letteratura occidentale: dalla Scuola siciliana, anticipo della gemmazione
del Dolce stil novo, ai trouvères francesi, ai poeti galleghi e ai Minnesänger».15
Senza i trovatori sarebbe impossibile anche solo immaginare le varie
letterature d’Europa, così come le conosciamo e così come si sono evolute: basti
pensare all’autore che forse è l’esempio più illuminante di tale gemmazione, Ezra
Pound. Da Mario Mancini16 a Roberta Capelli17, la filologia romanza ha
dimostrato che la visionaria esperienza poetica di Pound nel Novecento deve
molto alla cultura trobadorica. Per intenderci, il lascito è inestimabile.
Fin qui, tuttavia, nulla di poco noto. Ciò che si tende a ignorare (purtroppo
pure tra i filologi romanzi) è, invece, che «quell’antica letteratura ha continuato a
vivere e vive tuttora: unica a svilupparsi con continuità di tradizione sul territorio
chiamato Francia, fra Atlantico e Mediterraneo, a dispetto del centralismo
parigino e d’una costituzione che recita: “Il francese è la lingua della
Repubblica”».18
Per Giovanni Agresti – autore di diversi studi sulla lingua d’oc, in
particolare sulla sua presenza in Italia – l’occitano è «une minorité en quête
14
http://www.lemonde.fr/politique/article/2016/06/24/la-nouvelle-region-languedoc-roussillon-midi-pyreneesrebaptisee-occitanie_4957440_823448.html
15
F. GARAVINI, “Lo sol poder es que de dire”. La letteratura occitanica oggi, in «Paragone» Letteratura, Anno
LXVI, Terza serie, Numero 117-118-119 (780-782-784), Febbraio-Giugno 2015, p. 16.
16
M. MANCINI, Lo spirito della Provenza. Da Guglielmo IX a Pound, Roma, Carocci, 2004.
17
R. CAPELLI, Carte provenzali. Ezra Pound e la cultura trobadorica (1905-1915), Roma, Carocci, 2013.
18
F. GARAVINI, ‘Lo sol poder es que de dire’, cit., p. 16.
11
�d’universel».19 Secondo il francesista, il movimento occitano negli ultimi anni
sembra avere ritrovato la carica e lo spirito dei primordi, attraverso delle
iniziative originali (l’annuale “Fête des Langues” di Tolosa; la corrente
altermondista “Gardarem la Tèrra”; la richiesta all’Unesco dell’iscrizione della
lingua nel Patrimonio mondiale immateriale dell’umanità; le manifestazioni
“Anem per la lenga occitana” che hanno riunito decine di migliaia di persone)
caratterizzate dall’apertura verso un dialogo europeo e internazionale.20
Altra prova di questa ripresa dalle dimensioni europee e internazionali è
l’antologia Grains of Gold, edita dalla casa editrice londinese Francis Boutle nel
2015 e curata da James Thomas. Un’opera monumentale (di quasi ottocento
pagine), che copre dieci secoli di storia letteraria, dalle origini ad oggi, con testi
in versione bilingue occitano-inglese. L’autore della meritoria raccolta è stato
insignito del “Premio Ostana – Scritture in lingua madre” 2015.21
In Italia, l’interesse nei confronti della letteratura occitanica contemporanea
è presente già con Pasolini, che segnalò all’Academiuta di lenga furlana
l’esistenza di René Nelli e Robert Lafont. Mentre negli anni Sessanta, Gianfranco
Contini, già mentore del giovane Pasolini, propose alla sua allieva Fausta
Garavini una tesi di laurea sulla letteratura occitanica moderna.22
La studiosa e scrittrice lo ha ricordato nel numero di febbraio-giugno 2015
della rivista «Paragone», in cui ha presentato una panoramica (lunga più di cento
pagine) sugli autori d’Occitania più importanti dell’ultimo secolo. Tra questi ha
incluso Jean Boudou.23
19
G. AGRESTI, Changer le monde par le discours. Observations générales et remarques sur l’occitan contemporain,
in Amb un fil d’amistat, mélanges offerts à Philippe Gardy, pars ses collègues, ses disciples et ses amis, réunis par J.-F.
Courouau, F. Pic et C. Torreilles, Toulouse, Centre d’étude de la littérature occitane, 2014, p. 61.
20
Ivi, p. 62.
21
http://www.chambradoc.it/Edizione-2015/Grains-of-Gold-un-rsquoantologia-della-letteratura-occitana.page.
22
F. GARAVINI, “Lo sol poder es que de dire”, cit., p. 17. La tesi a cui si allude è: Ead., La letteratura occitanica
moderna, Firenze-Milano, Sansoni Accademia, 1970.
23
A questo importante autore occitano novecentesco hanno dedicato interventi, oltre a Fausta Garavini, (pochissimi)
altri studiosi italiani, quali i già menzionati Roberta Capelli e Giovanni Agresti:
R. CAPELLI, Les troubadours dans l’œuvre poétique de Jean Boudou et Max Rouquette, in Le rayonnement de la
civilisation occitane à l’aube d’un nouveau millénaire, Actes du VI Congrès International de l’Association International
d’Études Occitanes (12-19 sept. 1999), réunis et édités par G. Kremnitz, B. Czernilofsky, P. Cichon, R. Tanzmeister,
Wien, Praesens, 2001, pp. 631-642;
G. AGRESTI, Le conte-vie de Jean Boudou, in Id., Parcours linguistiques et culturels en Occitanie (1996-2006).
Enjeux et avatars d’une langue minoritaire contemporaine, textes réunis par F. Bienkowski, Roma, Aracne, 2006, pp.
193-197.
12
�Scheda biografica di Jean Boudou (1920-1975)
«Nato nel 1920 a Crespin, nell’Aveyron (al limite sud del Massiccio
Centrale), da una famiglia di contadini, Jean Boudou (Bodon in oc) muore nel
1975 in Algeria, dove si è stabilito dal 1967 come insegnante nell’ambito della
politica francese di cooperazione.
Diplomato maestro elementare nel 1941, dopo due anni di servizio
obbligatorio a Breslavia, in Slesia (1943-1945), è liberato dall’esercito sovietico
e rientra al paese dove comincia a pubblicare. Il mestiere gli viene dalla madre,
narratrice di racconti tradizionali, popolati di draghi, fate e fantasmi, che Boudou
rielabora, con altri materiali da lui raccolti, in Los contes del meu ostal
(“Racconti di casa mia”, 1951) e Contes dels Balssas (“Racconti dei Balssa”,
nome della famiglia materna, che è la stessa di Balzac, 1953).
Mentre riprende l’insegnamento in varie scuole della zona, prende
contatto con l’I. E. O. e incontra a Tolosa Robert Lafont e altri attori della
rinascenza occitanica. È quindi edito dall’I. E. O. il suo romanzo La grava sul
camin (“I ciottoli sulla strada”, 1956), che riferisce la penosa esperienza in
Germania e il difficile ritorno in una prosa spoglia, disadorna, che caratterizzerà
anche i libri successivi, dove tuttavia riaffiora il mondo fantastico dei racconti e
s’insinua un humour venato d’angoscia.
L’economia di una scrittura fatta di frasi brevi, essenziali, contrasta così
con un’immaginazione sbrigliata in tutti i romanzi che seguono, dove
s’intrecciano folclore, psicanalisi, fantascienza, affabulando su toni di allegoria –
a tratti carnevalesca, con quanto di amaro e disperato questo comporta – le
miserie storiche dell’Occitania, lo sgretolamento della società patriarcale, i
tremori dell’eterno femminino.
Poco importa, al limite, la traccia narrativa, sopraffatta dalla fantasia in
La Santa Estela del Centenari (“La Santa Estella del Centenario”, 1960, mimesi
caricaturale della tradizionale festa del Felibrismo di cui santa Estella è la
protettrice), Lo libre dels Grands Jorns (“Il libro dei grandi giorni”, 1964, ultimi
13
�giorni di vita di un uomo colpito dal cancro), Lo libre de Catòia (“Il libro di
Catòia”, 1966, racconto di un’infanzia in una delle ultime famiglie di enfarinats,
i cattolici scismatici del Rouergue che si erano opposti alla soppressione degli
antichi vescovati sanciti dal concordato del 1802 fra Pio VII e Napoleone), La
quimèra (“La chimera”, 1974, romanzo storico sulla guerra dei camisards, i
calvinisti che lottarono per la libertà religiosa dopo la revoca dell’editto di
Nantes). Incompiuto e postumo è il racconto fantastico Las domaisèlas (“Le
fate”, 1976). Boudou lascia poi molti inediti di romanzi iniziati e abbandonati.
Considerato un pilastro della narrativa d’oc del XX secolo, è autore
anche di testi poetici che negli anni Sessanta, quando avrà raggiunto la celebrità
(in Occitania, s’intende), saranno messi in musica da vari cantanti. Oltre ai primi,
apparsi sull’Armana Rouergat nel 1939 e ripresi in Res non val l’electrochòc
(“Niente vale l’elettrochoc”, allusione a Antonin Artaud, 1970), si segnalano la
raccolta Sus la mar de las galeras (“Sul mare delle galere”, 1975) e l’edizione
postuma delle poesie complete (2010)».1
In questa breve ma piuttosto esaustiva scheda biografica allestita da
Fausta Garavini manca la raccolta dei Contes del Drac2, pubblicata nel 1975 e
che merita di essere ricordata se non altro per due stupende fiabe: La Bèla
Esteleta e La montanha negra.
1
2
Citato da F. GARAVINI, “Lo sol poder es que de dire”..., pp. 36-37.
J. BODON, Contes del Drac, Tolosa, IEO, 1975, ora in Id., Contes, Puylaurens, IEO, 2003.
14
�Prefazione
Quand j’étais enfant, je croyais que mon père était écrivain car
mon père écrivait des livres. C’est quand je suis entrée en
sixiéme que j’ai appris la vérité. Notre professeur de français
nous avait donné pour sujet de rédaction: ‘Quel métier voulezvous exercer quand vous serez adulte?’ Pour moi, c’était
évident, je voulais être écrivain comme mon père et c’est ce que
j’ai écrit dans ma rédaction. Quinze jours plus tard, après avoir
rendu les copies à toutes mes camarades, le professeur m’a
ordonné de monter sur l’estrade et elle a lu mon devoir à haute
voix. Ensuite elle m’a expliqué que mon père n’était pas
écrivain, que les vrais écrivains écrivaient en français comme
ceux que nous allions étudier en classe. Nous étions en 1956, je
1
n’avais jamais entendu parler de la relativité.
JEANINE BOUDOU
Nelle pagine che seguono proveremo a restituire un ritratto di Jean
Boudou, un autore che – assicura Georg Kremnitz – se avesse scritto in una
lingua dominante, sarebbe stato conosciuto dappertutto, ben al di fuori dei
confini della sua terra.2
Boudou sapeva, ovviamente, anche il francese, ma è l’occitano (più
precisamente una varietà di linguadociano, il rouergate, dialetto dell’Aveyron,
dove lo scrittore nacque nel 1920) la prima lingua che ha sentito parlare, la prima
che ha imparato prima di andare a scuola. Per lui vale in maniera letterale e
viscerale quello che sostiene Heidegger: il linguaggio è la dimora dell’essere, noi
“siamo parlati”.3
Boudou si firmò, nelle sue opere, con la versione occitana del suo nome
e del suo cognome: Joan Bodon. Nelle traduzioni accettò la versione in francese,
Jean Boudou, che era, del resto, quella presente nella sua carta d’identità e la cui
1
J. BOUDOU, La littérature occitane est et n’est pas une littérature comme les autres, in Jean Boudou, L’homme &
l’écrivain, Puylaurens, IEO-Ostal Joan Bodon, 2010, p. 2.
2
G. KREMNITZ, Raport final, in J. Boudou (1920-1975), Actes du Colloque de Naucelle (27, 28 et 29 septembre
1985), réunis par C. Anatole, Béziers, CIDO, 1987, p. 261.
3
M. HEIDEGGER, In cammino verso il linguaggio, trad. it. a c. di A. Caracciolo, Milano, Mursia, 1988, p. 211.
15
�pronuncia suonava identica. Due nomi per una sola persona, due facce di una
stessa storia umana.4
Boudou non si diede alla letteratura in francese perché gli sarebbe
sembrato quasi un tradimento delle proprie origini, un travisamento della propria
intima essenza. La scelta dell’occitano, lungi dall’essergli conveniente dal punto
di vista pratico, si rivela in tutti i suoi libri come elemento necessario e fondante
della sua poetica.
Siamo certamente di fronte ad uno scrittore «di natura più propriamente
filosofica»5 che storica, potremmo dire con Pirandello. Nei romanzi, nelle fiabe,
persino nelle poesie che compone Boudou, la riflessione copre un ruolo centrale,
sicché verrebbe da affermare che in lui contino più i pensieri che le azioni.
Giovanni Agresti ha acutamente paragonato chi scrive in lingua d’oc ad
Orfeo e l’Occitania ad Euridice.6 Inseparabili eppure divisi, vicini ma al
contempo lontani, l’uno sempre in cerca dell’altra che sempre gli sfugge. La
letteratura, allora, diventa l’unico luogo di un possibile incontro: così avviene in
Boudou.
Che si trovi nel natío Aveyron o in territorio straniero (sia Germania o
Algeria), Boudou è consapevole che l’Occitania esiste e continuerà ad esistere
solamente grazie a chi fa vivere la sua propria lingua. In questo modo si può
essere testimoni dello spirito e della sensibilità del popolo occitano.7
Boudou è anche lo scrittore della rinascita del folclore, della sua
riformulazione secondo le istanze della contemporaneità e tramite la memoria
dell’infanzia.8 I suoi Contes (che più che con “racconti” tenderemmo a rendere
con “fiabe”, come nel napoletano Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile),
raccolti durante tutto l’arco della sua esistenza, nascono dai ricordi delle storie
ascoltate a casa da bambino, soprattutto raccontate dalla madre, Albanie.9
4
L’oscillazione è presente pure nella critica, che usa, indifferentemente, ora la versione occitana, ora la versione
francese.
5
L. PIRANDELLO, Prefazione a Sei personaggi in cerca d’autore, in Id., Sei personaggi in cerca d’autore. Enrico IV,
a c. di R. Alonge, Milano, Mondadori, 1993, pp. 3-4.
6
G. AGRESTI, Parcours linguistiques et culturels en Occitanie (1996-2006), cit., p. 23.
7
J. DELMAS, Aspects ethnologiques de l’œuvre de Jean Boudou, in J. Boudou (1920-1975), Actes du Colloque de
Naucelle (27, 28 et 29 septembre 1985), cit., p. 118.
8
G. AGRESTI, Parcours..., cit., p. 31.
9
http://www.ostal-bodon.com/fr/homme/biographie.html.
16
�Tra l’allegoria e la fantascienza, tra il romanzo di formazione e il
romanzo d’avventura, in Boudou c’è il paradosso, l’ironia e il grottesco. Egli
stesso félibre ed occitanista militante, amico di tutte le grandi personalità dell’I.
E. O. (Institut d’Études Occitanes) si prende gioco di idee che pur ufficialmente
condivide.10
Secondo Élodie De Oliveira, un principio letterario caratteristico della
scrittura di Boudou è appunto la rottura dell’orizzonte d’attesa.11 Le sue poesie
sono intessute di felibrismo, oltre che del regionalismo del conterraneo François
Fabié, con echi degli stessi trovatori, ma in un ribaltamento del canone estetico
tradizionale (anche se non mancano versi ispirati ad amati autori stranieri quali
Lorca o Heine).12
I romanzi – a cui Boudou si consacra a partire dagli anni Cinquanta e che
contribuiscono in più larga misura alla sua portata innovativa – passano
attraverso un’estetica estranea agli scrittori occitani e si rifanno a tendenze
internazionali rese popolari dalla letteratura di consumo: la fantascienza, il giallo,
l’autobiografia, la commedia nera e la prosa erotica.13
Per quanto riguarda lo stile boudouniano, possiamo affermare con Joëlle
Ginestet – studiosa autrice di quello che a nostro avviso è il saggio più esaustivo
e profondo sullo scrittore rouergate14 – che «l’escritura de Joan Bodon se
manifèsta d’un biais original: fragmentada en capitols e paragrafs corts amb un
emplec minimal de la subordinacion mas tanben amb una distribucion de las
pausas pauc costumièra».15 Una scrittura tutto sommato semplice, si direbbe, per
un immaginario però (e lo vedremo) molto complesso.
10
W. CALIN, Du réalisme magique dans le roman occitan: lecture subversive de La Santa Estèla del Centenari de J.
Boudou, in Toulouse à la croisée des cultures, Actes du V Congrès International de l’Association Internationale
d’Études Occitanes, édités par J. Gourc et F. Pic, Toulouse, 19-24 août 1996, Volume II, 1998, pp. 477-478.
11
É. de OLIVEIRA, La Canson del Paìs (1948). Édition critique et commentée d’un recueil poétique de Jean Boudou,
Toulouse, Section Française de l’Association Internationale d’Études Occitanes, 2012, p. 201.
12
Ead., L’écriture de Jean Boudou: de la littéralité à la littérarité, in Los que fan viure e treslusir l’occitan, Actes du X
Congrès de l’Association Internationale d’Études Occitanes, édités par C. A. Garabato, C. Torreilles, M.-J. Verny,
Béziers, 12-19 juin 2011, Limoges, Lambert-Lucas, 2014, pp. 860-861.
13
Ivi, p. 865.
14
J. GINESTET, Jean Boudou, La force d’aimer, Wien, Praesens, 1997.
15
“La scrittura di Jean Boudou si manifesta in maniera originale: frammentata in capitoli e paragrafi brevi con un
impiego minimale della subordinazione ma anche con una distribuzione delle pause poco consueta”, Ead., Negre e
blanc: una dinamica de l’òbra de Joan Bodon, in Toulouse à la croisée des cultures, cit., p. 481.
17
�Concetto cardine dell’opera boudouniana è quello della talvera (in
italiano potremmo renderlo approssimativamente con “margine”). In occitano il
termine indica la parte di un terreno agricolo che si lascia non lavorata, il bordo
di un campo. In Boudou diventa una metafora: pressoché tutti i suoi personaggi
sono appunto degli outsiders, degli emarginati. Nel primo capitolo ne parleremo
più diffusamente, anche in riferimento al vissuto personale dell’autore.
Nel secondo capitolo invece si tenterà di porre l’accento su alcuni
termini ricorrenti e diremmo “topici”, quali trigossar e misèria (compresi i
derivati e le sfere semantiche di appartenenza). Qui sarà evidente la
Weltanschauung di Boudou: tra fatalismo ed esistenzialismo, con la solitudine e
il male di vivere assoluti protagonisti.
In seguito, nel terzo capitolo, ci chiederemo in che modo Boudou intenda
il rapporto con l’altro da sé: l’altro inteso come il francese e la Francia del Nord
(la Francia dei cosiddetti francimands) e l’altro inteso come universo femminino
e femminile (contrapposto ad una virilità sempre più debole). Quest’ultimo tema
riveste una grande importanza soprattutto nella parte terminale della produzione
dello scrittore, pregna di interrogativi sul sesso e l’identità di genere di
sorprendente attualità.
Nel quarto capitolo daremo spazio alla religione e al rapporto col sacro,
evidenziando la presenza massiccia del retroterra cristiano e cattolico (non si
contano i passi dei vangeli inseriti qua e là), che convive con una palese simpatia
nei confronti dell’eterodossia. Eterodossia che, in ambito politico, si appaia ad
una tendenza più anarcoide che comunista, nel rispetto di una libertà di coscienza
sempre dichiarata dall’autore.
Infine, vedremo che rapporti di somiglianza legano Boudou ad alcuni dei
suoi scrittori prediletti e le tracce (più o meno manifeste) di tali autori rinvenibili
nelle sue opere. In particolare, ci soffermeremo con più insistenza su Vittorini e
Pavese, italiani e quasi contemporanei.
18
�I. LA TALVERA
Sotto di loro ci sono le fogne; in loro
non c’è nulla e sopra di loro il fumo.
Noi eravamo dentro. Non abbiamo goduto niente.
Noi passammo in fretta. E, lentamente, passano anche loro.1
BERTOLT BRECHT
I. 1. Al “margine”
Nel 2010 l’Institut d’Études Occitanes ha pubblicato l’edizione bilingue –
con la traduzione in francese firmata dall’anch’egli poeta Roland Pécout – di
tutte le poesie di Jean Boudou2, completa sia dei componimenti già editi sia di
quelli inediti. La talvera è il nome di una silloge poetica inclusa, insieme a Res
non val l’electrochoc, in Sus la mar de las galeras, la raccolta che era stata curata
per la pubblicazione dallo stesso Boudou e data alle stampe nell’anno della sua
morte (1975).
La talvera, prima di assurgere a concetto cardine della poetica
boudouniana, è il titolo di una poesia inserita nella silloge omonima, scritta
nell’estate del 1968 (in un momento storico, quindi, particolarmente
significativo) a Saint-Laurent-d’Olt, piccolo villaggio dell’Aveyron in cui
Boudou visse per diversi anni.
Con ogni probabilità, e certo non a caso, si tratta del componimento più
noto dello scrittore rouergate. Consta di venticinque versi divisi in cinque strofe,
ciascuna di cinque versi, tutti in rima baciata: tecnicamente, una poesia piuttosto
semplice. La prima e l’ultima strofa sono quasi identiche e hanno la stessa rima
in –at:
1
B. BRECHT, Sulle città, in Id., Libro di devozioni domestiche, lezione seconda: esercizi spirituali, in Id., Poesie 19181933, testo originale a fronte, trad. it. di E. Castellani e R. Fertonani, Torino, Einaudi, 1968, p. 107.
2
J. BODON, Poèmas, éd. bilingue, trad. franç. de R. Pécout, Puylaurens, IEO, 2010.
19
�[I strofa, vv. 1-5]
Es sus la talvera qu’es la libertat,
La mòrt que t’espèra garda la vertat.
Cal sègre l’orièira, lo cròs del valat,
Grana la misèria quand florís lo blat.
Es sus la talvera qu’es la libertat…
È sul margine che sta la libertà,
La morte che t’aspetta custodisce la verità.
Devi seguire il tratturo, il pendio della fossa,
Fiorisce la miseria quando germoglia il grano.
È sul margine che sta la libertà…
[V strofa, vv. 21-25]
Es sus la talvera qu’es la libertat.
D’orièira en orièira pòrta la vertat.
La vida t’espèra de cròs en valat:
Bolís la misèria quand grana lo blat.
3
Es sus la talvera qu’es la libertat…
È sul margine che sta la libertà
Di tratturo in tratturo porta la verità.
La vita t’aspetta dal pendio della fossa:
Fermenta la miseria quando fiorisce il grano.
È sul margine che sta la libertà…
Le parole chiave, oltre a quella del titolo, sono sostanzialmente due,
«libertat» e «vertat». Boudou rivendica l’importanza del “margine” (la talvera,
metafora tratta dal mondo agricolo, è appunto il bordo di un campo), luogo dove
i valori si conservano: nella marginalità – sociale, politica o sessuale – si trova la
libertà e la verità. Si noti come «la mòrt» del v. 2 si rovesci ne «la vida» del v.
23; «la misèria» dei vv. 4 e 24 è parola che ricorre abbondantemente in tutto
l’opus boudouniano: ne parleremo nel prossimo capitolo.
La poesia intitolata Ucraina – della medesima raccolta – è imparentata con
quella che abbiamo appena descritto. Lo testimonia Roland Pécout nelle sue
Notes du Traducteur in appendice al libro:
Un jeu de mot vient prolonger “en abîme” le poème: Ucraina
est à la fois le nom du pays et un synonyme, dans les langues
slaves, de talvera, de lisière, de pays des confins, de marche
4
territoriale.
L’ispirazione gli viene forse dall’esperienza – esperienza che Rémi Soulié
ha ricordato esser stata anche di George Brassens, artista libero e spregiudicato
come il nostro5 – del Service du Travail Obligatoire (in sigla S. T. O.)6, a Breslau
(Breslavia, oggi città della Polonia, all’epoca della Germania nazista). Là,
trasferitovi dal governo collaborazionista di Vichy, il poco più che ventenne
Boudou rimase dal 1943 al 1945, due anni che lo marchiarono a fuoco.7
3
Ivi, p. 69.
Ivi, p. 293.
5
R. SOULIÉ, Les chimères de Jean Boudou. Écriture de la perversion, Paris, Editions Fil d’Ariane, 2001, p. 33.
6
http://fr.wikipedia.org/wiki/Service_du_travail_obligatoire_(France).
7
http://www.ostal-bodon.com/fr/homme/biographie.html.
4
20
�In questo triste periodo egli legge e impara il tedesco, ed espressioni in
quell’idioma sono rintracciabili ne La grava sul camin – il suo primo romanzo ad
esser pubblicato, nel 19568 – e ne L’evangèli de Bertomieu, opera di cui restano
solo dei frammenti, anch’essa legata al periodo dello S. T. O.9
I. 2. Il nemico
Liberato dall’Armata Rossa alla fine della guerra, Boudou racconterà il
viaggio di ritorno in Francia ne La grava sul camin. Ci si aspetterebbe una
durissima requisitoria contro la Germania, ma nelle pagine – per altro mirabili
per una scrittura sobria e tuttavia molto efficace – a spiccare sono soprattutto
parole di empatia («Alemanha, qual te compren?») nei confronti di un popolo
vinto e di un Paese disgraziato («marrit païs»).10
Che un francese – per di più deportato – si possa preoccupare del futuro di
un tedesco («Alemanha, Alemanha, qué serà l’avenidor?») e della lingua tedesca
persino («Qual sap se tornarem ausir los retroniments de la tia lenga?») 11, che un
francese, in quei tempi di odio mortale tra le due nazioni, possa dire addirittura
«Alemands, ieu vòli creire e creirai que sètz los nostres fraires», in nome della
speranza che «totes los miserables un jorn nos comprendrem»12, non lascia
indifferenti. Boudou “stona”, non si accorda al sentire comune, e lo fa
consapevolmente.
Quest’idea di fratellanza tra gli ultimi, questo spirito di solidarietà tra
oppressi, sono vicini al Bertolt Brecht delle Poesie di Svendborg, quello che
scriveva che a pagare le spese e a fare la fame dopo una guerra, sia tra i vincitori
che tra i vinti, è sempre «la povera gente».13
Certo, come è ovvio, a Breslavia non fu tutto rosa e fiori, stando a certi
passi de La grava sul camin:
8
http://www.ostal-bodon.com/fr/homme/bibliographie.html.
I due testi pubblicati insieme in J. BODON, La grava sul camin. L’evangèli de Bertomieu, Puylaurens, IEO, 2015.
10
Id., La grava sul camin, cit., p. 40.
11
Ibidem.
12
Ivi, p. 56.
13
B. BRECHT, Poesie di Svendborg (1933-1938), in Id., Poesie 1933-1956, testo originale a fronte, trad. it. di M.
Carpitella et al., Torino, Einaudi, 1977, p. 119.
9
21
�L’asir, la languina revolumavan dins nòstre còr, mas nos teniàs
per l’aganiment e per la paur… Rosegats dels pesolhs,
dormissiàm sus de pòstes. Nos escanàvem tot lo jorn per poder
14
chafrar de rabatasses lo ser. Alemanha, marrit païs!
(‘L’odio, la malinconia scombussolavano il nostro cuore, ma ci
tratteneva la fatica e la paura... Rosicchiati dai pidocchi,
dormivamo su delle panche. Ci scannavamo tutto il giorno per
poter masticare delle rutabaghe la sera. Germania, disgraziato
Paese!’).
Una volta tornato nella propria terra, il narratore e protagonista del romanzo
deve fare i conti con lo strisciante sospetto che provoca la sua presenza tra i suoi
conterranei. L’autista di un autobus arriva ad accusarlo apertamente di
collaborazionismo con i nazisti: «as ajudat als bòchas, anem!».15 Con «bòchas» in francese boches – si indicavano in modo spregiativo i soldati tedeschi (in
italiano potremmo tradurre la frase così: “hai aiutato i crucchi, andiamo!”).
L’accusa è, insomma, quella di non essere rimasto in Francia e di avere
sulla coscienza i caduti in guerra francesi. Un’accusa piuttosto pesante e
assolutamente infondata, come è facile constatare: non fu una scelta personale e
libera quella di lavorare per la Germania, ma un obbligo imposto dal governo di
Vichy, a sua volta vincolato a rispondere agli ordini di Hitler.
L’ieu cerca di controbattere, si professa non filo-tedesco, ma non basta,
poiché «los que tenián pas pels bòchas, tuavan de bòchas!»16 (“quelli che non
erano dalla parte dei crucchi, ammazzavano i crucchi!”).
La denuncia, pur immotivata e pretestuosa (cos’altro avrebbe potuto fare?),
ferisce il narratore e protagonista, gli dà da pensare. Pensa – lui che davvero mai
ha lottato contro cosa o persona17 – ai francesi morti nel ’44 per la Liberazione,
caduti nel nobile intento di salvare la nazione, combattendo.
Quand regisclava la vòstra sang, a l’ora que tombavetz, de qué
fasiái ieu? Trabalhavi per Alemanha. La libertat que m’avètz
gasanhada, la me meritavi pas. E ara de qué me servis la mia
18
libertat? Fugissi.
(‘Quando il vostro sangue si spargeva, nell’ora che cadevate,
che facevo io? Lavoravo per la Germania. La libertà che mi
14
J. BODON, La grava sul camin, cit., p. 40.
Ivi, p. 55.
16
Ibidem.
17
Ivi, p. 145.
18
Ibidem.
15
22
�avete guadagnato, non me la meritavo. E ora a che mi serve la
mia libertà? Scappo’).
Pregiudizio popolare, inoltre, vuole che i russi siano dei selvaggi. Al che il
reduce ribatte con «los russes son d’òmes coma nosautres»19 (“i russi sono degli
uomini come noialtri”). Nel suo secondo romanzo, La Santa Estela del
Centenari, Jean Boudou fa parlare un «polonés, de Breslau», un uomo che si era
«totjorn cregut alemand e prussian encara mai»20 (“sempre creduto tedesco e
prussiano ancor di più”), e poi un anziano con la Legion d’onore tenuta nascosta,
un eroe di Verdun con tanto di cranio trapanato, che dice:
E perqué nos batiàm en catòrze, franceses e alemands? Encara o
me demandi, perqué. E tu en Indochine, e lèu en Africa del
Nòrd? O sabes, perqué te bates? Del temps que sèm que tot va
21
cabussar. La grandor de França! A! A!
(‘E perché ci siamo battuti nel ’14, francesi e tedeschi? Ancora
me lo domando, perché. E tu in Indocina, e presto in Nord
Africa? Lo sai, perché ti batti? Nel tempo in cui siamo che tutto
va allo sfascio. La grandezza della Francia! Ah! Ah!’)
Quella risata, quell’allusione alla grandeur de la France chiama in causa
niente meno che Charles de Gaulle. Viene in mente la prima pagina delle sue
Memorie di guerra, quella dove il grande generale parla «di una certa idea della
Francia», l’idea secondo cui quel Paese non fosse fatto per la mediocrità ma per
le grandi imprese, per la grandezza.22
I. 3. Il perturbante
In una lettera a Robert Lafont del 20 febbraio 1952, Jean Boudou scrive di
non credere alle menzogne della propaganda e che «totes coma dich lo proverbi
del Roergue sèm faches del mème biais», cioè siamo tutti fatti allo stesso modo,
ovvero «de carne e d’òsses e de mèrda de bons tròces»23 (“di carne e di ossa e di
merda in pezzi grossi”).
19
Ivi, p. 52.
Id., La Santa Estela del Centenari, Rodez, Edicions de Roergue, 1990, pp. 55-56.
21
Ivi, pp. 147-148.
22
C. de GAULLE, Memorie di guerra, vol. 1, L’appello (1940-1942), trad. it. di M. Rivoire, Milano, Garzanti, 1959, p.
5.
23
Lettera del 20-2-1952. La corrispondenza Boudou-Lafont è conservata manoscritta nel Fondo Lafont degli Archivi
del Cirdòc di Béziers. Su occitanica.eu è disponibile e scaricabile l’edizione critica a cura di M. Pedussaud.
20
23
�Boudou nella medesima lettera punta il dito contro la storiografia ufficiale
francese, di cui denuncia la faziosità. Racconta a Lafont di aver letto in Germania
la storia di Paoli-Schwartz, un alsaziano che nel 1920 rifiutò di fare il soldato per
la Francia e che per questo passò una quindicina di anni nella temutissima “Isola
del Diavolo” in Guyana.
Lo scrittore mostra la propria onestà intellettuale, la propria coerenza
pacifista, commentando la politica estera di Parigi – i luoghi messi a ferro e
fuoco in Tunisia, in Vietnam – con interrogativi sofferti come «Qual se merita la
corda? Qual a rason al temps que sèm?»24 (“Chi si merita la corda? Chi ha
ragione al tempo in cui siamo?”).
Si comprende come mai il tema dell’esclusione sia, secondo Cantalausa, il
tema boudouniano per eccellenza già dai primordi. Esclusi infatti risultano i
giovani reduci come l’ieu de La grava sul camin, esclusi dal trovare un loro
posto nel loro vecchio mondo; esclusa la Germania sconfitta, esclusa la giovane
polacca di buona famiglia costretta a prostituirsi.25
L’esclusione è sempre sinonimo di esilio in Jean Boudou. In una lettera a
Joseph Salvat (fondatore del Collegio d’Occitania, abate e linguista; anch’egli
venne deportato in Germania e anch’egli morì in Algeria)26 del 29 aprile 1952
Boudou confidava di essere distante, «luènh de pertot», dalla letteratura occitana,
di non conoscere molto «dels nostres escribans d’òc».27 Perciò non deve destare
meraviglia sapere che i personaggi raccontati si trovano, chi più e chi meno, in
una situazione paragonabile ad una di quelle realmente vissute dall’autore.28
Parla di emarginazione La Santa Estela del Centenari, in cui la lingua
occitana assume un ruolo centrale nella narrazione, un ruolo simbolico che
ritroveremo in tutti gli altri romanzi. È lo stesso Boudou a suffragare questa
chiave di lettura, in una lettera a Henri Mouly29 del 30 ottobre 1960:
La descasença de la lenga es quicòm de segondari. Es lo païs tot
entièr, Occitània entièira, qu’es en descasença del punt de vista
24
Ibidem.
J. CANTALAUSA, Lo tèma de l’exclusion dins los romans de Bodon, in «Revue de Tarn», n°161, 1996, p. 147.
26
http://fr.wikipedia.org/wiki/Joseph_Salvat.
27
Lettera del 29-4-1952, Corrispondenza Boudou-Salvat, conservata manoscritta negli Archivi del Cirdòc di Béziers.
28
J. ARROUYE, Joan Bodon, romancier de l’exil, in J. Boudou (1920-1975), Actes du Colloque de Naucelle (27, 28 et
29 septembre 1985), cit., p. 173 e p. 176.
29
Poeta e félibre del Rouergue, maestro e amico di Boudou. Si veda: http://fr.wikipedia.org/wiki/Enric_Mouly.
25
24
�economic, intellectual, demografic. [...] Occitània sèc la
destinada de totes los païses colonizats: una resèrva de
30
manòbras per París, ni mai ni mens.
(‘La decadenza della lingua è qualcosa di secondario. È il Paese
tutto intero, l’Occitania intera, che è in decadenza dal punto di
vista economico, intellettuale, demografico. […] L’Occitania
segue il destino di tutti i Paesi colonizzati: una riserva di
manodopera per Parigi, né più né meno.’)
Singolare è notare che l’inquietante senso di estraneità si affianchi ad un
radicato vincolo di appartenenza: quasi come per il perturbante freudiano,
«quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò
che ci è familiare».31 Leggiamo in Freud:
La parola tedesca unheimlich [perturbante] è evidentemente
l’antitesi di heimlich [confortevole, tranquillo, da Heim, casa],
heimisch [patrio, nativo], e quindi familiare, abituale. […]
Quanto più un uomo si orienta nel mondo che lo circonda, tanto
meno facilmente riceverà un’impressione di turbamento
32
[Unheimlichkeit] da cose o eventi.
L’uomo boudouniano è un uomo che ha perso la bussola, un uomo
disorientato, che alla domanda, poco gradita, “di dove sei?”, non può che
rispondere «d’un bocin pertot»33 (letteralmente: “un pochino di dovunque”). Un
uomo a cui – come ebbe a dire uno scrittore tedesco molto amato da Boudou,
Heinrich Böll34 – le città gli sono ugualmente estranee.35
E se nella dimensione dello spazio Boudou mostra una sorta di
smarrimento, per quanto riguarda il tempo la sua sfortuna è quella di non averne
molto a disposizione: egli insegna, è uomo d’azione del sindacato, ricopre delle
funzioni a livello locale e nelle associazioni occitane; è marito, è padre (di ben
sei figli, quattro femmine e due maschi); è, ça va sans dire, scrittore. In più, gli
30
Letras de Joan Bodon a Enric Mouly, Naucelle, Societat dels Amics de Joan Bodon, 1986, p. 164.
S. FREUD, Il perturbante, in Id., Opere, vol. IX, trad. it. e a c. di C. Musatti, Torino, Boringhieri, 1977, p. 82.
32
Ivi, pp. 82-83.
33
J. BODON, La grava sul camin, cit., p. 142.
34
Mostra su Boudou (a cura di Y. Rouquette, P. Divaret e P. Baccou) al Museo di Saint-Laurent-d’Olt nel 1993
ripresentata dal Cirdòc nel maggio 2016 a Rodez. Si veda: http://www.ville-rodez.fr/fr/culture-etloisirs/estivada/documents/DOS-animations-MAI.pdf.
35
H. BÖLL, Perché la città si è fatta straniera, dialoghi con H. Vormweg, trad. it. di F. Rondolino, Roma, Editori
Riuniti, 1987, p. 96.
31
25
�capita di lavorare la terra per sbarcare il lunario, perché anche il denaro
scarseggia.36
I. 4. In cammino
Il mondo si presenta agli occhi attenti di Boudou in continuo movimento,
come un immaginario cangiante frutto di un’erranza senza sosta. Le pagine che
scrive sono letteralmente abitate, attraversate e infestate dall’immagine della
strada, a tal punto che il camminare può essere considerato alla stregua di un
personaggio, e di un personaggio principale per giunta. Queste figure di erranti
sono spinte dalla necessità piuttosto che dalla curiosità e lo spostamento è una
deviazione dall’angoscia, ma soprattutto serve a vivere e sentirsi vivi.
Camminare, migrare insomma, per non morire.37
Avremmo potuto intitolare questo lavoro – seguendo uno spunto dello
scrittore Robert Marty38 – L’homme qui marche, come le celebri sculture di
Alberto Giacometti, in cui ogni uomo «ha l’aria di andare per conto suo, tutto
solo, in una direzione che gli altri ignorano».39 Il nostro poeta, infatti, è sempre in
marcia tra strade e ferrovie, percorrendo ampi territori con l’inchiostro della sua
penna.
Inoltre, non c’è in Boudou l’opposizione tipica della letteratura félibre tra la
città, intesa come luogo della perdizione, e la campagna, concepita come luogo
dell’armonia40: poiché, in generale, la vita risulta piuttosto pesante in entrambi i
casi. Esiste, invece, l’attrazione del capoluogo dell’Aveyron, Rodez, che
rappresenta il primo passo verso l’integrazione sociale, verso una qualche forma
di emancipazione. E quindi:
Le collège avec le possibilité de s’instruire, la foire avec la
possibilité de communiquer avec ceux de sa génération, la
maison close avec la possibilité d’une première experience
41
sexuelle, la gare avec la possibilité de s’échapper un jour.
36
J. GINESTET, Jean Boudou, la force d’aimer, cit., p. 11.
J. VIALERET, Jean Boudou, l’homme qui marche, in R. SOULIÉ (sous la direction de), Jean Boudou, «Littérature
en Lagast», Cahier n°4, Montpellier, Amitié François Fabié, 2012, pp. 67-68.
38
R. MARTY, Terres de l’homme ou le monde poétique de Jean Boudou, in J. BODON, Poèmas, cit., p. 9.
39
A. GIACOMETTI, Conversazione con Pierre Schneider, in Id., Scritti, a c. di M. Leiris e J. Dupin, trad. it. E.
Grazioli e C. Negri, Milano, Abscondita, 2001, p. 302.
40
J. GINESTET, Jean Boudou, la force d’aimer, cit., p. 113.
41
Ivi, p. 39.
37
26
�Tutto parte dalla casa, dall’ostal, termine cardine, «mèstre mot de la cultura
d’òc», nonché «lòc ont comença lo remembre»42, ricettacolo di nostalgie. Spazio,
anche, della contraddizione e del conflitto, della polarità centrifuga, la casa è il
simbolo del legame con la madre.43 La madre, originaria di un paesino tra Albi e
Rodez, contastorie a cui Boudou deve molti dei suoi Contes.44
La casa – che compare pure nel titolo dei Contes del meu ostal45 e che in
una poesia inedita fino al 2010 si dice essere in demolizione46 – è al centro de Lo
libre de Catòia, dove l’ostal è anche «gleisa»47 e «fortalesa»48 della famiglia. «La
maison est l’unité de base de la culture du Rouergue», ha scritto Joëlle Ginestet.49
Ma dire casa è dire patria, come ne La quimèra (pubblicato un anno prima della
morte, nel 1974), l’opera più lunga e ambiziosa di Boudou. “La chimera” a cui si
allude è l’indipendenza dal re di Francia, ai tempi della rivolta dei camisards, in
un romanzo che intreccia riflessione storica e speculazione religiosa. Leggiamo
infatti che:
Lo cèl es la sola patria. La tèrra tota es tèrra d’exilh. Pr’aquò lo
païs que ieu nasquèri! Nasquèri del sang, del voler de la carn.
Cadenas son lo sang e la carn. […] Es del meu païs, del meu
pòble que me devi trachar. L’esperit de cada païs es la sia
50
lenga.
(‘Il cielo è la sola patria. Tutta la terra è terra d’esilio. Però il
paese dove sono nato! Sono nato dal sangue, dal volere della
carne. Catene sono il sangue e la carne. […] È del mio paese,
del mio popolo che mi devo preoccupare. Lo spirito di ogni
paese è la sua lingua.’)
«Un païs que se cerca, un païs que vòl viure»51 ma che «pòt pas nàisser tot
sol»52, un paese che rivendica la propria esistenza «coma una persona viva»53. Un
paese che sembra un destino, come nel caso del protagonista de Lo libre dels
42
P. CANIVENC, Prefaci a J. BODON, Contes, cit., pp. 9-10.
Ivi, p. 10.
44
J. BODON, Contes del Drac, ora in Id., Contes, cit., p. 14.
45
Id., Contes del meu ostal, Montpellier, IEO, 1978, ora in Id., Contes, cit..
46
Id., L’ostal nòstre, in Id., Poèmas, cit., p. 229.
47
Id., Lo libre de Catòia, Rodez, Edicions de Roergue, 1993, p. 29.
48
Ivi, p. 42.
49
J. GINESTET, Jean Boudou, la force d’aimer, cit., p. 38.
50
J. BODON, La quimèra, Rodez, Edicions de Roergue, 1989, pp. 22-23.
51
Ivi, p. 79.
52
Ivi, p. 80.
53
Ivi, p. 190.
43
27
�grands jorns che scende dal treno a Clermont Ferrand invece che a Parigi54 (si
osservi la coincidenza: proprio la capitale della lingua francese, “l’altro” della
lingua occitana, nonché la sede del governo centrale, “l’altro” dell’Occitania).
I. 5. Sconforto e orgoglio
Secondo Bell Hooks – teorica americana e celebre attivista femminista – il
margine può essere pensato come «uno spazio da cui l’oppresso, il colonizzato e
lo sfruttato possono esprimere la loro negazione nei confronti dell’oppressore,
del colonizzatore e dello sfruttatore». In questo senso la marginalità non sarebbe
quindi «una dimensione alienata, da abbandonare per spostarsi verso il centro,
bensì una posizione da mantenere a tutti i costi».55
Dal punto di vista “marginale” è possibile sviluppare una personale
concezione del mondo, in qualche modo autonoma e comunque valida. Una
siffatta idea di margine si allontana senza dubbio dal senso di deprivazione che di
norma si attribuisce al concetto, senso che in Boudou è, tra l’altro, il prevalente.
D’altronde, Hooks chiarisce subito che non può trattarsi di un luogo sicuro, dal
momento che il centro cercherà sempre di contenerlo e controllarlo.56
Boudou pare sospeso tra questi due estremi della sua vita al margine: da un
canto, si mostra scoraggiato dall’assistere alla situazione in cui versa l’occitano,
dall’altro, sembra fiducioso nei confronti di una possibile rinascita, ad un tempo
socio-culturale ed economico-politica (l’autore è conscio del fatto che questi due
aspetti non sono affatto svincolati).
Per il primo atteggiamento possiamo citare questo breve passo de La Santa
Estela del Centenari (si noti il topos letterario dell’ubi sunt e quel «tèrra santa»,
che gli conferiscono un’aura quasi messianica):
Fabiè… Pompiròls… Besson… Aqueles dos, aqueles tres que
cantavan la tèrra santa del Roergue. Uèi que demòra, d’eles?
57
Tres monuments, qualque placa de carrièira.
54
Id., Lo libre dels grands jorns, Rodez, Edicions de Roergue, 1996, p. 21 e p. 28.
B. HOOKS, Yearning: Race, Gender and Cultural Politics, Boston, South End Press, 1990, pp. 149-150, cit. in M.
MORONI, Al limite. L’idea di margine e confine nel Novecento italiano, Firenze, Le Monnier, 2007, pp. 1-2.
56
Ibidem.
57
J. BODON, La Santa Estela del Centenari, cit., p. 28.
55
28
�(‘Fabiè... Pompiròls... Besson... Quei due, quei tre che
cantavano la terra santa del Rouergue. Oggi che resta, di loro?
Tre monumenti, qualche targa di via.’)
Un altro esempio di questo tipo di sconforto possono essere i versi della
poesia Los òmes sens patria: «Sèm los òmes sens patria / que parlam la lenga
d’òc. / Trigossam lo nòstre ròc: / mas i a pas d’Occitania…»58 (“Siamo gli
uomini senza patria / che parliamo la lingua d’oc. / Trasciniamo il nostro masso: /
ma non c’è Occitania…”). Quel masso trascinato è un più che probabile
riferimento al mito di Sisifo, magari ricordato seguendo la celebre lettura che ne
diede Albert Camus. Dell’esistenzialismo boudouniano parleremo nel prossimo
capitolo, e anche del termine trigossar, come avevamo anticipato nella
prefazione.
Per quanto invece riguarda la revancha dell’Occitania, Boudou pensava
all’occitano come lingua internazionale. Nel fondo Lafont degli archivi del
Cirdòc (Centre Interrégional de Développement de l’Occitan) di Béziers è
conservato un documento intitolato À propos du bilinguisme, forse del 1955 e
scritto in francese. Così si esprime l’autore aveyronese:
Si la langue d’oc fut autrefois langue internationale, elle le dut à
la situation du pays d’oc au point de convergence des trois
autres groupes de parlers romans (groupe ibérique, groupe
italien, dialectes d’oïl). La langue d’oc fut la langue du juste
milieu qui influença ou subit des influences des pays arabes et
59
par l’Aquitaine anglaise des parlers anglo-normands.
I. 6. Il folclore
Passiamo a Las domaiselas, l’ultimo – incompiuto – romanzo (ma è un
romanzo?) di Boudou. Più che con “Le fanciulle” il titolo andrebbe tradotto con
“Le fate”, che nei tempi antichi si diceva abitassero il Rouergue e che «èran pas
de marridas fadas»60, cioè non erano cattive. L’autore aveva dedicato anche una
vecchia poesia alla Femna de Viaur61 – fiume che è passaggio e frontiera, fiume
58
Edita solo nel 2010, in Id., Poèmas, cit., p. 289.
Id., À propos du bilinguisme, documento manoscritto conservato negli archivi del Cirdòc di Béziers.
60
Id, Contes de Viaur in Id., Contes, cit., p. 157.
61
Id., Poèmas, cit., pp. 217-219.
59
29
�che segnò il limite dell’espansione del catarismo62 –, sorta di ondina accostabile
alla Lorelei tedesca. Approfondiremo tali figure femminili nel terzo capitolo di
questa tesi.
Il folclore, dunque, eccolo insinuarsi. Si domanda Boudou se non sia altro
che una religione che ha perduto la fede o quel che rimane di una religione
deturpata.63 Lo scrittore ricorda l’uomo che conosce la geografia dei mondi
sotterranei, lo stregone o lo sciamano attraverso cui la parola prende corpo.64 Il
folclore era la sola letteratura d’oc che gli fu concesso di conoscere sin da
piccolo, erano storie “vive”, laddove la parola “folclore” gli suona ormai come
«un mot de cementèri».65
Da questa consapevolezza sorge la satira del secondo capitolo de Las
domaisèlas con la creazione del (finto) Parco Nazionale dell’Espinergue, tra
Rodez e Albi.66 Boudou ridicolizza il turismo ad oltranza, anche a costo dello
snaturamento di un luogo, in vantaggio di «una formula pus atractiva, pus
dinamica», che garantisca lo spaesamento.67 Gli strali irriverenti di queste pagine
colpiscono persino i Félibres, l’I. E. O. e il P. N. O. (Partito Nazionalista
Occitano), rei di essere sempre in disaccordo.68
Il sarcasmo giunge ad evidenziare una beffa che è anche economica: gli
impiegati di questo famigerato parco sono la maggior parte di lingua francese e
di nascita francesi del Nord, dal momento che «las autoritats estimèron que lo
francés parlat amb ‘l’accent’ bastariá per despaïsar los toristas sens geinar
l’intercompreneson».69 Un francese marcato da un accento locale e lo
spaesamento sarebbe stato garantito, l’intercomprensione salvata: parola delle
autorità. Boudou qui tocca vette di indubbia (e amara) efficacia comica, come
nella chiusa:
Amics toristas, donc, venètz toristicar. Lo Pargue Nacional
d’Espinergue vos aperten. Los Espinergòls sèm al vòstre servici
62
J. GINESTET, Jean Boudou, la force d’aimer, cit., p. 40.
Joan Bodon: documents, Tolosa, CREO, 1975, p. 124.
64
J. GINESTET, Jean Boudou, la force d’aimer, cit., p. 160.
65
Joan Bodon: documents, cit, p. 125.
66
Più o meno in quello che si chiama Ségala, all’estremità occidentale del Massiccio Centrale. Era la terra d’origine
della madre Albanie.
67
Id., Las domaiselas. L’òme que èri ieu, Rodez, Edicions de Roergue, 1987, p. 38.
68
Ivi, pp. 39-40.
69
Ivi, p. 40
63
30
�per vos assegurar tot çò que podètz desirar. Vòstre sin, quin que
siá, lo sabèm alisar. [...] Nòstre contentament es de vos
70
contentar. Toristas, venètz toristicar.
(‘Amici turisti, dunque, venite a fare i turisti. Il Parco Nazionale
d’Espinergue vi appartiene. Noi Espinergòls siamo al vostro
servizio per assicurarvi tutto ciò che potete desiderare. Ogni
vostro vizio, quale che sia, lo sappiamo coccolare […] La
nostra soddisfazione è soddisfarvi. Turisti, venite a fare i
turisti’)
La nuova cultura delle visite guidate e dell’esibizionismo fa a pugni con
l’antica e genuina sobrietà. Di questa rimane in quella un non so che spento, un
alone sbiadito, la copia senza anima.71
I. 7. La radice “rizoma”
Fanton, dins una tèrra d’òrt, las granas melhoras
s’abastardisson. Per aver frucha saborosa, cal empeutar gema
domerga sus tana caninosa. Aital se mesclan de sabas contràrias
72
[…] Lo mond sèm coma los arbres.
(‘Bambino mio, in una terra da coltivare, i semi migliori
s’imbastardiscono. Per avere dei frutti saporiti bisogna innestare
gemma domestica su pianta selvatica. Così si mescola linfa
contraria […]. Le persone sono come gli alberi.’)
La poetica di Boudou, modellata attraverso una peculiare tendenza alla
diglossia e una caratteristica predilezione per la marginalità, nutrita dei problemi
teorici del Novecento, trova nel pensiero di Édouard Glissant – intellettuale
martinicano
recentemente
scomparso
–
degli strumenti chiarificatori.73
Particolarmente utili tornano le nozioni di “radice”, “rizoma” e “opacità”, che
hanno un’eco nelle immagini della casa, della strada e della metamorfosi,
immagini tanto care al nostro autore.
Glissant viene ricordato soprattutto per quella che egli stesso definì più
volte «poetica della Relazione»:
Io dico che la nozione di essere e dell’assoluto dell’essere è
legata alla nozione di identità come “radice unica” e
dell’esclusività dell’identità, e che se si concepisce un’identità
rizoma, cioè radice che si intreccia con altre radici, allora ciò
che diventa importante non è tanto una pretesa assolutezza di
70
Ivi, pp. 40-41.
J. GINESTET, Jean Boudou, la force d’aimer, cit., p. 39.
72
J. BODON, Contes dels Balssàs, Tolosa, IEO, 2015, pp. 112-113.
73
C. PARAYRE, Jean Boudou, écrivain de langue d’òc, Paris, L’Harmattan, 2003, p. 259.
71
31
�ogni radice, ma il modo, la maniera in cui entra in contatto con
altre radici: la Relazione. Oggi una poetica della Relazione mi
sembra più evidente e più avvincente di una poetica
74
dell’essere.
La radice può essere, perciò, o unica – esclusiva e fortemente settaria – o
rizoma – plurima e diffusamente inclusiva. Il pensiero-rizoma è un pensiero
dell’erranza, libero e non vincolato. L’errante, che non è né un viaggiatore né,
tanto meno, un conquistatore, cerca di conoscere il mondo nella sua totalità, pur
sapendo che tale obiettivo si riveli, da ultimo, un’utopia.
L’errante ricusa l’editto universale, generalizzante, che
riassumeva il mondo in una trasparente evidenza, pretendendo
che avesse un senso e una finalità prefissati. Egli si immerge
75
nelle opacità di quella porzione di mondo alla quale accede.
Stando a Catherine Parayre – francesista e occitanista della Brock
University (Ontario, Canada) – il messaggio principale dell’opera di Boudou
insisterebbe sull’indissolubilità dei legami esistenti tra il pensiero-radice e il
pensiero-rizoma: nel paesaggio boudouniano le strade sono simboli che portano
ad altri simboli, le case, e da queste si diramano quelle. Difendendo le proprie
radici, «il défend la vision d’un monde rhizomatique»: la sua opera mostra come
e «combien, pour promouvoir la diversité, il importe de protéger les
spécificités».76
I. 8. L’ultimo viaggio
Due grandi avvenimenti incastonano il vissuto di Jean Boudou: la
seconda guerra mondiale e l’indipendenza dell’Algeria. E ogni volta egli si è
ritrovato in una situazione moralmente difficile: lavoratore per il Service du
Travail Obligatoire e cooperante francese a Larbatache, a 35 km ad est di Algeri.
E si aggiunga pure la sensazione di essere un estraneo anche nel proprio stesso
paese, la cui lingua non cessa di ossessionarlo.77
74
É. GLISSANT, Poetica del diverso, trad. it. di F. Neri, Roma, Meltemi, 1998, p. 26.
Id., Poetica della Relazione. Poetica III, trad. it. di E. Restori, Macerata, Quodlibet, 2007, p. 31.
76
C. PARAYRE, Jean Boudou, écrivain de langue d’oc, cit., pp. 259-260.
77
J. GINESTET, Jean Boudou, la force d’aimer, cit., p. 109.
75
32
�Così Boudou si rivolge a Henri Mouly, in una lettera del 3 novembre
1968, da Larbatache:
Devètz creire que soi mòrt o que vos ai oblidat.
Solament soi partit per Argèria. Per mai d’una rason que aquí
seriá tròp long de dire. Sabi: nòstre ensenhament agricòla es
fotut en França e encara mai en Roergue. Sabi, sabi. Mas tanben
78
voliái veire çò que se passa en Argèria.
(‘Dovete credere che io sia morto o che vi abbia dimenticato.
Sono solo partito per l’Algeria. Per più di una ragione che qui
sarebbe troppo lungo dire. Lo so: il nostro insegnamento
agricolo è fottuto in Francia e ancor di più in Rouergue. Lo so,
lo so. Ma volevo pure vedere che cosa succede in Algeria.’)
Le motivazioni fondamentali della partenza sono materiali, ma c’è anche
una sincera curiosità intellettuale nei confronti della situazione algerina.
Situazione che Boudou accosta a quella occitana, in un’ottica che investe sia la
lingua che la storia. In particolare, le due realtà avrebbero secondo lui subito una
simile forma di colonizzazione.
Lenga d’òc e arab an aguda una istòria que se revèrta. En
primièr una lenga literària classica. Puèi una colonizacion que a
menat la dialectalizacion e la mescla amb las lengas dels
colonizaires. Ne sabèm quicòm en Occitània. […] Mas lo
colonizaire – e aquò perdura encara en Argèria e ailàs! encara
en Occitània – vòl pas conéisser la realitat de la lenga maire, de
79
la nauta lenga coma dison los Alemands.
(‘Lingua d’oc e arabo hanno avuto una storia che si assomiglia.
Innanzitutto, una lingua letteraria classica. Poi una
colonizzazione che ha portato la dialettizzazione e il miscuglio
con le lingue dei colonizzatori. Ne sappiamo qualcosa in
Occitania. […] Ma il colonizzatore – e ciò perdura ancora in
Algeria e ahime! ancora in Occitania – non vuole riconoscere la
realtà della lingua madre, della “lingua alta” come dicono i
tedeschi.’)
Boudou trova l’occasione di citare i tedeschi, anche qui. Heinrich Böll,
da buon renano, in un’intervista spiegò come parlare la propria lingua significhi
rivendicare l’appartenenza ad una nazionalità, soprattutto per chi di mestiere fa lo
scrittore. Anzi, di più:
Non esiste, addirittura, testimonianza più elevata di
appartenenza ad un popolo dello scrivere nella sua lingua:
anche se si scrive male. Perché la lingua viene usata come
78
79
Letras de Joan Bodon a Enric Mouly, cit., pp. 260-261.
Ibidem.
33
�mezzo di espressione, e ciò significa assai più che il possesso di
un passaporto o di una carta d’identità, o di una scheda
80
elettorale.
Occuparsi di una lingua vuol dire occuparsi dei problemi, dei conflitti e
delle vicissitudini che coinvolgono i parlanti di quella lingua. E questo è un
impegno che Boudou ha deciso di assumere nella sua scrittura, un impegno tanto
più gravoso dal momento che la lingua in questione si trovava in una condizione
di evidente svantaggio.
80
H. BÖLL, Intervista sulla memoria, la rabbia, la speranza, a c. di R. Wintzen, trad. it. di M. T. Mandalari, RomaBari, Laterza, 1979, p. 4.
34
�II. PENA DI VIVERE COSÌ
[…] e con questa pena, con questa pena che non passa, non già
per lei soltanto, che forse soffre meno di tant’altri, ma per tutte
le cose e tutte le creature della terra, com’ella le vede
nell’infinita angoscia del suo sentimento che è d’amore e di
pietà; questa pena, questa pena che non passa, anche se qualche
gioja di tanto in tanto la consoli, anche se un po’ di pace dia
1
qualche sollievo e qualche ristoro: pena di vivere così…
LUIGI PIRANDELLO
II. 1. L’esistenzialismo
In una lettera a Henri Mouly del 23 febbraio 1942 – quindi in piena seconda
guerra mondiale e prima della deportazione a Breslavia per il Service du Travail
Obligatoire – Jean Boudou si rivolge in questi termini al suo sodale: «Consí
fasètz, vos, per èsser tot lo temps content? Consí cal far per aver confiança?»2
(“Come fate, voi, ad esser sempre contento? Come bisogna fare per aver
fiducia?”).
Due domande che senza dubbio non richiedono, né potrebbero avere, una
risposta: la diversità nell’affrontare la vita tra i due amici dipende dalla loro
natura, evidentemente dissimile. Certo, i tempi non consentivano comunque
largo ottimismo e già dagli anni ’30 il clima culturale era quello
dell’esistenzialismo, tra insensatezza e vuoto.3
L’esistenzialismo aveva proprio in Francia alcuni dei suoi massimi
interpreti. Il linguista tedesco Georg Kremnitz ha accostato Boudou al Sartre di A
porte chiuse e al Camus de Lo straniero.4 I testi boudouniani col più evidente
1
L. PIRANDELLO, Pena di vivere così, in Id., Novelle per un anno, vol. II, a c. di S. Costa, Milano, Mondadori, 2011,
p. 561.
2
Letras de Joan Bodon a Enric Mouly, cit., p. 42.
3
http://www.treccani.it/enciclopedia/esistenzialismo_%28Dizionario-di-filosofia%29/.
4
G. KREMNITZ, Bodon e Alemanha, in J. Boudou (1920-1975), Actes du Colloque de Naucelle (27, 28 et 29
septembre 1985), cit., pp. 212-213.
35
�debito nei confronti del pensiero esistenzialista e della filosofia dell’assurdo sono
– come ha indicato Catherine Parayre5 – La grava sul camin e Lo libre dels
grands jorns.
La grava sul camin si apre con la liberazione del protagonista (e narratore
in prima persona) da parte dell’Armata Rossa. Eppure, le prime parole che
leggiamo del liberato sono un’esclamazione di spavento: «ai paur!».6 Non c’è
spazio per la gioia, non può esserci, perché la sofferenza ha lasciato segni
profondi, e non solo nell’ieu del romanzo:
Dempuèi que soi nascut la vida me maca lo còr. […] Cadun se
7
leca coma pòt. Que cadun pòrte la sia pena.
(‘Da quando sono nato la vita mi ferisce il cuore. […] Ognuno
si lecca [le ferite] come può. Ché ognuno porta la sua pena.’)
Sia ne La grava sul camin che ne Lo libre dels grands jorns (ma è così
pressoché in ogni libro di Boudou) il protagonista è solo. Ne Lo libre dels grands
jorns è addirittura lo stesso ieu a volere la solitudine: la sua è in pratica una fuga.
In un’altra città, lontano dalla famiglia: «èri pro luènh ça que la del meu ostal»,
«degun me cercariá pas aqui»8 (“tuttavia ero abbastanza distante da casa mia”,
“nessuno mi avrebbe cercato qui”).
I “grandi giorni” sono gli ultimi della vita di quest’uomo, malato di cancro
e perciò dal destino già segnato:
Tres meses lo mai. Pas benlèu un mes! M’aviá dich
9
l’especialista de Montpelhièr.
(‘Tre mesi al massimo. Forse neanche un mese! M’aveva detto
lo specialista di Montpellier’).
A fianco all’angoscia per una morte sicura e incombente, si fa presto strada
in lui una consapevolezza: quella di essere libero, per la prima volta.10 La
famiglia e la società forgiano l’io, la persona, e questo “io” è una concentrazione,
5
C. PARAYRE, Jean Boudou, écrivain de langue d’oc, cit., p. 123.
J. BODON, La grava sul camin, cit., p. 27.
7
Ivi, p. 128.
8
Id., Lo libre dels grands jorns, cit., p. 21.
9
Ivi, p. 26.
10
Ivi, p. 29.
6
36
�una cristallizzazione delle aspirazioni altrui: il concetto di eroe libero dalle
influenze dell’ambiente in cui vive non esiste in Jean Boudou.11
Kremnitz ha visto una contrapposizione profonda tra i personaggi di
Boudou e quelli di Lafont: mentre i personaggi di Lafont sono, il più delle volte,
attivi, fanno, agiscono, tendono ad essere insomma soggetti, quelli di Boudou
sono passivi, dipendono dalla volontà di altri, non sanno che strada prendere.12
Come in Sartre, in Boudou «l’uomo è l’essere per cui il nulla viene al
mondo».13 Per l’autore de La nausea ognuno di noi è «condannato ad essere
libero»14, perché:
La libertà è precisamente il nulla che è stato nell’intimo
dell’uomo e che costringe la realtà umana a farsi invece che ad
15
essere. […] Per la realtà umana, essere vuol dire scegliersi.
Joëlle Ginestet, nella monografia che abbiamo già più volte citato, insiste
molto sul senso di solitudine provato in vita da Boudou.16 Il che non può non
destare un po’ di meraviglia, dal momento che lo scrittore era sposato e aveva –
lo si era ricordato nel primo capitolo – ben sei figli.
Questa solitudine si riflette chiaramente nei romanzi, attraverso la
problematica della comunicabilità (e s’intitola, non a caso, La comunicacion il
terzo capitolo de Lo libre de Catòia), la quale è soprattutto rovesciata nel suo
contrario: l’incomunicabilità, se non addirittura il silenzio.17
II. 2. Il tempo e il suicidio
Martin Heidegger sosteneva che l’essere non è nel tempo, ma è il tempo.18
Per questo, argomentava il filosofo tedesco, «una volta che il tempo è definito
come tempo cronometrico, non c’è più speranza di arrivare al suo senso
originario».19 Da qui discenderebbe «l’inquietante spaesatezza dell’esserci».20
11
J. GINESTET, Jean Boudou, la force d’aimer, cit., p. 33.
G. KREMNITZ, Bodon e Alemanha, cit., p. 212.
13
J.-P. SARTRE, L’essere e il nulla, trad. it. di G. Del Bo, Milano, Il Saggiatore, 1988, p. 61.
14
Ivi, p. 534.
15
Ivi, p. 535.
16
J. GINESTET, Jean Boudou, la force d’aimer, cit., pp. 11-12.
17
G. KREMNITZ, Bodon e Alemanha, cit., p. 213.
18
M. HEIDEGGER, Il concetto di tempo, trad. it., a c. di F. Volpi, Milano, Adelphi, 2002, p. 40.
19
Ivi, p. 46.
12
37
�Il tempo in Boudou è un tempo ciclico, fatto di ripetizioni, anche sul piano
stilistico.21 Si noti, a titolo d’esempio, quel «tot sol encara, tot sol»22 ripetuto in
due pagine consecutive de Lo libre dels grands jorns, a sottolineare due momenti
successivi, accomunati dalla medesima condizione solitaria.
Solo, sperduto in luogo straniero – in Algeria, per la precisione – è lo
schiavo protagonista e narratore de La quimèra, un uomo che ha persino perso la
concezione del tempo.23 Un uomo che invoca la morte come sua unica via di
redenzione24, ma che si guarda bene dal commettere suicidio. Come mai?
Per quanto pesanti possano risultare le sofferenze, nessun personaggio di
Boudou arriva a togliersi la vita. Come Sisifo, l’uomo boudouniano è
eternamente condannato a fare rotolare un masso, ma, per quanto assurda possa
essere la sua esistenza, egli sa che la morte non è una soluzione.
Come ha scritto Camus, «Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli
dei e solleva i macigni».25 E in Boudou, come in Cioran – autore dal quale il
nostro trae il «penser contre-soi»26 – il suicidio è «un’idea positiva, che aiuta a
vivere», giacché «senza la possibilità di uscire dalla vita, questa sarebbe
insopportabile»27. Un’idea, dunque, una possibilità soltanto accarezzata.
In una lettera a Henri Mouly del 7 aprile 1942, lo scrittore rouergate si
esprimeva infatti così:
La vida que menam aicí es pas una vida d’infèrn. Òm
28
s’acostuma a tot. E après lo temps passa.
(‘La vita che conduciamo qui non è una vita d’inferno. Ci si
abitua a tutto. E poi il tempo passa.’)
Contro questa pena di vivere così, allora, a Boudou non resta che un
sollievo: quello, cioè, di sapere che qualche figlio della sua terra legga un suo
libro.29
20
Ivi, p. 42.
J. GINESTET, Jean Boudou, la force d’aimer, cit., p. 102.
22
J. BODON, Lo libre dels grands jorns, cit., p. 22 e p. 23.
23
Id., La quimèra, cit., p. 20.
24
Ibidem.
25
A. CAMUS, Il mito di Sisifo, in Id., Opere, trad. it., a c. di R. Grenier, Milano, Bompiani, 1992, p. 318.
26
J. GINESTET, Jean Boudou, la force d’aimer, cit., p. 124.
27
R. ARQUÉS, Sul suicidio. Intervista a Cioran, in M. A. RIGONI, In compagnia di Cioran, Padova, Il notes magico,
2004, p. 77.
28
Letras de Joan Bodon a Enric Mouly, cit., p. 43.
29
in J. BODON, Contes, cit., p. 87.
21
38
�II. 3. Trigossar come “vagare, vagabondare”
Il verbo (transitivo o riflessivo) trigossar in Boudou è assai presente e
assume svariati significati. La traduzione più letterale sarebbe “trascinare”; a
seconda dei casi, il significato però può oscillare tra “camminare a fatica”,
“lavorare duramente” e “strisciare”, nonché – ed è il significato più caratteristico,
più singolarmente boudouniano – “vagare”. Facciamo qualche esempio, partendo
da quest’ultimo senso.
Nei Contes dels Balssàs ad un certo punto si sgrida un ragazzo così:
Joan!... Joan!... Mas ont diable siás anat ? Que me farà enrabiar,
30
lo galapian... Quinze ans e pensar res qu’a trigossar…
(‘Giovanni!... Giovanni!... Ma dove diavolo sei andato? Che mi
farà arrabbiare, il monello… Quindici anni e non pensare ad
altro che a vagabondare…’)
Oppure di un pover’uomo vien detto che va a «trigossar per aqueles
travèrses»31
(“vagabondare
per
quelle
colline”).
Insomma,
il
termine
indicherebbe un andare in giro senza una vera destinazione in mente, come ne La
grava sul camin, col narratore che dice «sabi pas solament çò que cèrqui»32 (“non
so neanche che cosa cerco”).
Possiamo citare pure l’ieu de La Santa Estela del Centenari, con il suo
«dempuèi que trigòssi pel païs»33 (“da tanto che vago per il paese”), o quello de
Lo libre dels grands jorns: «una ora e mai que trigossavi»34 (“un’ora e più che
vagavo”).
Gironzola anche il nonno del protagonista de Lo libre de Catòia, dato che
tutta una notte «trigossèt per Rodés d’una carrièira a l’autra»35 (“vagò per Rodez
da una strada all’altra”). E «ieu trigossavi pels camins»36 (“io vagavo per le
strade”) afferma il narratore de La quimèra.
Ma indubbiamente i casi più eclatanti di questo uso peculiare li si trova –
sotto forma di sostantivi nemmeno presenti sui vocabolari da noi consultati – ne
30
Id., Contes dels Balssàs, cit., p. 69.
Ivi, p. 112.
32
Id., La grava sul camin, cit., p. 131.
33
Id., La Santa Estela del Centenari, cit., p. 16.
34
Id., Lo libre dels grands jorns, cit., p. 24.
35
Id., Lo libre de Catòia, cit., p. 121.
36
Id., La quimèra, cit., p. 193.
31
39
�Las domaiselas (quando, ad un certo punto, parlando dell’Hitler ante ascesa al
potere, lo si definisce «un òme de res, un trigòssa»37: “un uomo da niente, un
vagabondo”) e nella poesia Lo flaütaire, dove “il suonatore di flauto” è chiamato
a gran voce «trigossaire»38, molto probabilmente una variante dello stesso
termine (il significato è senza dubbio il medesimo).
Si vedano pure le poesie intitolate L’òme de pel travèrs – dove un uomo «se
trigòssa» su una collina in cerca non si sa di che cosa39 – e Los rebalaires, “gli
erranti” che dicono «sabèm pas ont anam»40 (“non sappiamo dove andiamo”).
Persino le domande retoriche – che in Boudou rivestono un ruolo tutt’altro
che secondario e servono a stabilire una certa complicità col lettore – sono
strumenti formali con cui l’autore sembra suggerire che non sa egli stesso dove i
suoi personaggi vadano a parare.41
II. 4. Trigossar come “trascinare, trascinarsi”
In una lettera da Larbatache, Algeria, del capodanno del 1972, Boudou
scrive a Henri Mouly:
Benlèu me cresètz mòrt. Solament dempuèi qualques annadas la
42
vida me trigossa que sabi pas encara ont me prendrà.
(‘Forse mi credete morto. [È] solo [che] da qualche anno la vita
mi trascina che non so ancora dove mi porterà.’)
Che possiamo accostare a «me pòt la vida missanta trigossar d’un païs a
l’autre païs»43 (“la vita disgraziata mi può trascinare da un paese all’altro”) da
Contes del meu ostal.
Nei Contes del Balssàs si trascinano delle armi («se trigossatz d’armas
passaretz pas»44: ma armas è un po’ ambiguo, potendo valere sia per “armi” che
per “anime”) e dei cadaveri nudi («e pùei trigossèron los cadavres nuds»45). Il
37
Id., Las domaiselas, cit., p. 129.
In Id., Poèmas, cit., p. 247.
39
Ivi, p. 179.
40
Ivi, p. 195.
41
J. GINESTET, Jean Boudou, la force d’aimer, cit., pp. 100-101.
42
Letras de Joan Bodon a Enric Mouly, cit., p. 271.
43
J. BODON, Contes, cit., pp. 133-134.
44
Id., Contes dels Balssàs, cit., p. 64.
45
Ivi, p. 65.
38
40
�verbo può tornare utile anche nelle imprecazioni, come in «que lo Diable la
trigòsse!»46 (“che il Diavolo se la porti!”).
Nella forma riflessiva, si indica un camminare a fatica, tipico degli anziani
o degli acciaccati, come ne La grava sul camin, quando leggiamo «se trigòssa
come pòt, gemega, se vòl sarrar de ieu»47 (“si trascina come può, geme, si vuole
avvicinare a me”) o come quando, ne Lo libre dels grands jorns, troviamo «un
gròs de la mina dolorosa que pantugava per se trigossar entre totas sas
botelhas»48 (“un uomo grosso dal volto sofferente che ansimava per trascinarsi
tra tutte le sue bottiglie”).
Nella poesia Lo paure Madèr della raccolta La cançon del país il
protagonista, “il povero Mader”, dice «veirai pas la fin de l’ivèrn, / me pòdi pas
mai trigossar, / me caldrà morir ça que la»49 (“non vedrò la fine dell’inverno, /
non mi posso più trascinare, / dovrò morire comunque”).
Ricorre non di rado – e l’abbiamo già notata – la presenza del termine in
contesti di morte: «trigossèron lo cadavre del Drac pro lùenh de l’ostal»50
(“trascinarono il cadavere del Drac abbastanza lontano da casa”); «aquí s’acabèt
lo vòstre somi, Viaur trigossèt lo vòstre sang»51 (“qui s’arrestò il vostro sogno,
Viaur trascinò il vostro sangue”); «quatre o cinc vièlhs que se podián pas batre
trigossavan los cadavres de la nuèch»52 (“quattro o cinque vecchi che non si
potevano battere trascinavano i cadaveri della notte”).
Una presenza che torna in più punti de La quimèra. Innanzitutto, in
occasione della fine tragica di Lilon, lanciatasi dalla finestra:
E s’èra tuada. Mas pas sul còp. Avia aguda la fòrça de se
trigossar en davalant, lo pus luènh que podiá de l’escòla, que
53
degun m’agusès pas.
(‘E s’era uccisa. Ma non sul colpo. Aveva avuto la forza di
trascinarsi in discesa, il più lontano che poteva dalla scuola,
affinché nessuno mi accusasse.’).
46
Ivi, p. 130.
Id., La grava sul camin, cit., p. 40.
48
Id., Lo libre dels grands jorns, cit., p. 35.
49
In Id., Poèmas, cit., p. 239.
50
Id., Contes, cit., p. 51. Il Drac è una figura demoniaca del folclore rouergate.
51
Ivi, p. 155.
52
Ivi, p. 190.
53
Id., La quimèra, cit., p. 46.
47
41
�Dall’assalto all’abate di Chayla – «agantèrem l’abat, lo trigossèrem sul Pont
del Tarn, aquí s’aplatussèt sus la calçada»54 (“agguantammo l’abate, lo
trascinammo sul Ponte del Tarn, qui si stese sulla carreggiata”) – alla disfatta con
i feriti che «en se trigossant»55, quasi strisciando, cercano di fuggire, per finire
con lo stesso protagonista che per poco non ci lascia la pelle:
Sabi pas qual me trigossava. Ausissiái: “A mòrt!... A mòrt lo
56
profeta fals!...”
(‘Non so chi mi trascinasse. Sentii: “A morte!... A morte il falso
profeta!...”’)
Non mancano gli usi figurati, come nei due esempi seguenti: «nos
trigossam dins la cagadura de nostre pensaments»57 (“ci trasciniamo dentro gli
escrementi dei nostri pensieri”) e «quand l’amor se deu rescondre, causís pas sos
arrucadors, ni causís pas sos adjutòris, se trigòssa pels recantons»58 (“quando
l’amore si deve nascondere, non sceglie i suoi rifugi, né sceglie i suoi aiutanti, si
trascina per gli angolini”).
II. 5. Trigossar come “faticare, lavorare duro”
Spesso il verbo designa azioni faticose, proprie di lavori fisicamente molto
provanti. Come nei Contes dels Balssàs gli uomini che «podián pas mai trigossar
lo carri»59 (“non potevano più trascinare il carro”) o che vanno avanti «en
trigossant de sacas pesugas»60 (“trascinando dei sacchi pesanti”): persone che il
narratore non esita a definire «bèstias umanas».61
E in effetti Boudou impiega il termine sia per gli esseri umani che per gli
animali, indifferentemente. Talvolta sono esplicitamente messi sullo stesso
piano:
E mai lo teniá sarrat a causa dels dròlles que, coma de cats, se
trigossavan jos la taula e velhavan lo moment per estirar la man,
62
rau!
54
Ivi, p. 293.
Ivi, p. 373.
56
Ivi, pp. 441-442.
57
Ivi, p. 366.
58
Id., Lo libre dels grands jorns, cit., p. 92.
59
Id., Contes dels Balssàs, cit., p. 15
60
Ivi, pp. 15-16.
61
Ivi, p. 16.
62
Ivi, p. 7.
55
42
�(‘E poi lo teneva vicino per via dei bambini che, come dei gatti,
strisciavano sotto il tavolo e aspettavano il momento per
allungare la mano, miao!’)
O quasi:
Sabi pro que la primièira canhotada cal que se nègue […]. Mas
63
lo mond sèm pas des cans.
(‘Più o meno so che la prima cucciolata bisogna annegarla. […]
Ma non siamo mica dei cani.’)
Ritroviamo il verbo riferito ad un cavallo stremato («se trigossava»64), a
serpenti (un ricordo della Bibbia: «la serp […] se trigossava sul ventre»65), a buoi
(«lo buoù trigossa la fèrra»66). Singolarissimo, poi, l’uso per indicare addirittura
il rapporto sessuale: «los cans que trigossavan las canhas darrièr lo bartàs»67 (“i
cani che trascinavano le cagne dietro il cespuglio”). Che suscita questa reazione:
Òc, las bèstias! Mas l’òme creat a l’image de Dieu, jamai ieu
auriái pensat que bestialament trigossès la femna sa companha e
68
se juntès a ela...
(‘Sì, le bestie! Ma l’uomo creato ad immagine di Dio, mai
avrei pensato che come bestia trascinasse la femmina sua
compagna e a lei si unisse…’).
Di uomini che lavorano come bestie ve ne sono soprattutto ne La grava sul
camin: «devriàm aver drech al lièch uèi: dempuèi que trigossam»69 (“dovremmo
aver diritto al letto oggi: da tanto che fatichiamo”); «trigossàvem de viures per
l’armada»70 (“trascinavamo viveri per l’armata”); «davalam, trigossam de
paquets»71 (“scendiamo, trasciniamo dei pacchetti”).
D’altronde è lo stesso protagonista a dire che la sua lingua, la lingua che
parlava con suo padre, è «la lenga del trimadís»72, cioè del lavoro duro. Trimar
possiamo considerarlo un sinonimo di questa accezione di trigossar. E così
63
Ivi, p. 103.
Id., Contes, cit., p. 79.
65
Id., La Santa Estela del Centenari, cit., p. 214
66
Id., Poèmas, cit., p. 75.
67
Id., Lo libre de Catòia, cit., p. 157.
68
Ivi, pp. 157-158.
69
Id., La grava sul camin, cit., p. 29.
70
Ivi, p. 36.
71
Ivi, p. 45.
72
Ivi, p. 73.
64
43
�abbiamo pure «trimèri tot l’estiu»73 (“ho lavorato duramente tutta l’estate”) e
«cada jorn, cada jorn trimavi»74 (“ogni giorno, ogni giorno faticavo”).
Ad un suo vecchio compagno di scuola l’ieu del primo romanzo di Boudou
chiede se ha imparato un mestiere e questi gli risponde: «ni mai ni mens…
trigòssi… A!»75 (“Né più né meno… Tiro avanti a fatica… Ah!”).
Può infine essere estenuante anche la scrittura di un libro, come Boudou
rende noto a Lafont in una lettera del 26 dicembre 1958:
76
Donc vos mandi aquí un libre que trigossavi coma una peira.
(‘Dunque vi mando qui un libro che trascinavo come una
pietra’).
II. 6. Trigossar: l’inerzia
Trigossar è il verbo che rappresenta l’inerzia. Non a caso viene accostato
con frequenza al vento - «coma de fuèlhas que trigòssa lo vent»77 (“come delle
foglie che il vento trascina”); «vent vièlh de la mia tèrra, trigòssame»78 (“vento
antico della mia terra, portami via”) – o alle intemperie: «l’aigaci que trigòssa la
tèrra dins l’òrt del vesin»79 (“l’acquazzone che trascina la terra nel giardino del
vicino”).
Viene usato per oggetti abbandonati: «dins la cambra de Pascal mòrt
quantes ne trobèron de papièrs que trigossavan, escampilhats?»80 (“nella camera
del defunto Pascal quanti ne trovarono di fogli che stavano per terra,
sparpagliati?”); «cadièiras e bancs cambavirats trigossavan sul ponde»81 (“sedie e
banchi rovesciati stavano sparsi sul pavimento”); «de rotlèus de pergamin
trigossavan deçà delà»82 (“dei rotoli di pergamena stavano per terra, di qua e di
là”).
73
Ivi, p. 82.
Ivi, p. 85.
75
Ivi, p. 139.
76
Lettera del 26-12-1958. La corrispondenza Boudou-Lafont è conservata manoscritta nel Fondo Lafont degli Archivi
del Cirdòc di Béziers. Su occitanica.eu è disponibile e scaricabile l’edizione critica a cura di M. Pedussaud.
77
J. BODON, Contes del Balssàs, cit., p. 53.
78
Id., La grava sul camin, cit., p. 141.
79
Id., Contes del Balssàs, cit., p. 11.
80
Id., Lo libre dels grands jorns, cit., p. 79.
81
Id., Lo libre de Catòia, cit., p. 108.
82
Id., La quimèra, cit., p. 91.
74
44
�Un termine particolarmente adatto per un autore i cui personaggi quasi mai
sono artefici del loro destino e che indica un qualcosa che semplicemente accade.
In una poesia intitolata Alba falsa, Boudou scrive «una alba falsa se trigòssa suls
puèges»83 (“un’alba falsa si trascina sui monti”); in un’altra, Las trèvas, lo dice di
“un ritaglio di luna vecchia”: «un retalh de luna vièlha / se trigòssa dins lo cèl».84
Ne Lo libre de Catòia sono le anime dei morti che seguono i vivi, «las trèvas»
appunto, che «se trigòssan de l’ostal vièlh a l’ostal nòu»85 (“si trascinano dalla
casa vecchia alla casa nuova”).
Non sorprende perciò osservare come il verbo serva a Boudou in tutti quei
casi in cui le creature della sua fantasia “subiscono” le azioni di altri. Così, ad
esempio, le donne vengono «trigossadas per carrièiras»86 (“trascinate per le
strade”: allusione alla prostituzione); così l’ieu de La grava sul camin – che suo
malgrado sposerà, in un matrimonio combinato, una donna storpia che non ama –
confessa:
87
Jamai non me saquejarai! Totjorn me daissarai rebalar.
(‘Non mi darò mai una mossa! Mi lascerò trascinare sempre’)
Farsi trascinare in guerra è quello che rischiano storicamente tutti i popoli e
non possono che essere trascinati i prigionieri, come Vercingetorige, ricordato ne
Lo libre dels grands jorns88, o come, ne La quimèra, frate Antonio, rapito da dei
briganti («en trigossant»89, vien detto), e lo stesso schiavo protagonista, che
afferma:
Nos valèm totes, los que trigossam de cadenas per quina rason
90
que siá.
(‘Siamo tutti uguali, noi che trasciniamo delle catene per quale
ragione che sia’)
Quest’uomo è l’esempio più lampante della passività dominante nell’opera
boudouniana. E ne ha ben donde, intendiamoci: oltre ad essere ridotto in
83
in Id., Poèmas, cit., p. 51.
Ivi, p. 207.
85
Id., Lo libre de Catòia, cit., p. 83.
86
Id., La grava sul camin, cit., p. 38.
87
Ivi, p. 124.
88
Id., Lo libre dels grands jorns, cit., p. 120.
89
Id., La quimèra, cit., p. 151.
90
Ivi, p. 21.
84
45
�schiavitù, è anche stato castrato. Questi mette in dubbio l’utilità del suo racconto,
il fatto che qualcuno possa leggere la sua storia: forse qualcuno pagherà il suo
riscatto, lo salverà, forse no. Anzi, certamente no:
91
Non. Degun me redemerà pas, ieu, que ne vali pas la pena.
(‘No. Nessuno mi redimerà, io, che non ne valgo la pena’)
II. 7. Destinati alla miseria
Altro argomento chiave nella produzione boudouniana è la miseria,
soprattutto intesa in senso materiale, ma non solo. Come abbiamo ricordato nel
primo capitolo, lo scrittore rouergate dovette affrontare non poche difficoltà
economiche e fare più lavori per poter mantenere la sua numerosa famiglia.
Molti personaggi di Boudou – se non proprio tutti – versano in stato di
povertà. E i poveri, si sa, sono spesso persone sole. Il povero, infatti, soffre due
volte: una volta perché non ha i mezzi per poter stare meglio, un’altra perché
nella solitudine si rende conto della propria nullità.92
Nella raccolta poetica Res non val l’electrochòc una poesia s’intitola
appunto Misèria: sono versi dedicati alla durezza della vita di campagna. Come
ha giustamente evidenziato Joëlle Ginestet, la grande lotta delle creature di
Boudou «consiste à retrouver une dignité perdue».93
L’uomo boudouniano – e lo abbiamo visto poc’anzi – non è poi così
lontano dalla condizione animale e solo «sa conscience de l’étendue de la
création et de sa misère le guide».94
Nei Contes dels Balssàs la miseria pare un eterno ritorno dell’uguale: «lo
temps passèt a la Noigaria coma passa pertot, amb de rebaladis e de misèrias»95
(“il tempo passò alla Noigaria come passa dappertutto, con scompiglio e
miserie”). Un destino ineluttabile già segnato nei nomi, perché «i a de noms que
pòrtan misèria»96, perché «lo malastre», la disgrazia, si trasmette nei
91
Ivi, p. 30.
P. SEGURET, Jean Boudou, romancier occitan de la pauvreté, héritier des spirituels romans, in J. Boudou (19201975), Actes du Colloque de Naucelle (27, 28 et 29 septembre 1985), cit., p. 136.
93
J. GINESTET, Jean Boudou, la force d’aimer, cit., p. 34.
94
Ivi, p. 35.
95
J. BODON, Contes dels Balssàs, cit., p. 101.
96
Ivi, p. 121.
92
46
�discendenti.97 Persino la rivoluzione, la grande Rivoluzione francese, non può
cambiare le cose:
Pr’aquò res èra pas cambiat. Se parlava pas mai de la talha, mas
caliá pagar la contribucion. Los gendarmas portavan una autra
cocarda mas tant vos insolentavan coma davant. [...] Los dròlles
novèls nascuts, tanleu dubrir los uèlhs, se ploravan coma dins
98
l’ancian temps: marca que la misèria demorava.
(‘Tuttavia, non era cambiato niente. Non si parlava più di
imposta, ma bisognava pagare il contributo. I gendarmi
portavano un’altra coccarda ma tanto vi insolentivano come
prima. […] I neonati, appena aprivano gli occhi, piangevano
come un tempo: segno che la miseria restava.’)
Una miseria che seppellisce vivi («es vertat que la misèria los aclapava»99),
una miseria che talvolta sono i morti, sotto forma di spiriti, a portare nelle case
(«se vòl, pòt tornar coma trèva portar la misèria pels ostals»100). Un’infelicità a
cui si cerca di scampare, magari fuggendo a Parigi. Senonché – ed è una sorta di
mago a predirlo – pure «a París i a de misèria».101
II. 8. La miseria e la guerra
Una miseria che in guerra diventa fatto eclatante. Che non risparmia
nessuno, tedeschi compresi («per eles tanben la misèria comença»102), soprattutto
se prigionieri: derisi, presi a calci e pugni, senza capire una parola in francese.103
D’altronde, bisogna aver sofferto in terra straniera «per conéisser la misèria d’un
presonièr».104
Il protagonista de La grava sul camin – deportato in Slesia e costretto a
lavorare per la Germania nazista – dice che «trigossava sa misèria dins las
carrièiras de Breslau»105, cioè “trascinava la sua miseria nelle strade di
Breslavia”.
Si noti come il verbo trigossar – di cui abbiamo abbondantemente già
discusso e che qui è utilizzato in maniera figurata – si sposi bene con il termine
97
Ivi, p. 147.
Ivi, p. 125.
99
Ivi, p. 139.
100
Ivi, p. 136.
101
Ivi, p. 149.
102
Id., La grava sul camin, cit., p. 32.
103
Ivi, pp. 104-105.
104
Ibidem.
105
Ivi, p. 125.
98
47
�misèria. Come sarà evidente, i due vocaboli vengono impiegati in contesti
analoghi. Un altro esempio, tratto da Las domaiselas, conferma tale affinità:
Degun cresiá pas a l’an quaranta… Que de miserables se
trigossèron pels camins per aquel estiu de la desbranda! De
106
refugiats pertot!
(‘Nessuno credette nel ’40... Quanti miserabili si trascinarono
per le strade in quell’estate dello sbando! Rifugiati
dappertutto!’)
Enric Savinhac, l’ieu del primo romanzo di Boudou, di ritorno nella sua
Francia dopo il Service du Travail Obligatoire, assiste al tragico spettacolo di
una povertà devastante, che deve fare i conti con un carovita sbalorditivo. Egli
apprende incredulo che occorrono 50 franchi per un bicchiere di vino e 25
franchi per mezza pagnotta (di pane nero, per giunta).107 Comprensibile, quindi,
il suo sfogo accorato:
Paura França! Lo ser, dins las barracas, parlàvem de tu coma
d’un paradis. Somiàvem del teu pan blanc, del teu vin generòs.
T’aimam uèi, pr’aquò, mas crenhèm la marrida vida que serà
108
per nosautres deman.
(‘Povera Francia! La sera, nelle baracche, parlavamo di te coma
di un paradiso. Sognavamo il tuo pane bianco, il tuo vino
abbondante. Oggi t’amiamo, comunque, ma temiamo la vita
meschina che ci spetterà domani.’)
E osserva gli operai che escono dalle fabbriche tutti scuri in volto; e osserva
le donne che, di notte, in mezzo alle strade, affittano il loro corpo. Uno scenario
desolante, che gli fa chiedere se «s’acabarà pas jamai la misèria»109, cioè se finirà
mai la miseria.
II. 9. Una miseria “cristiana” o censitaria?
Quello della miseria è un tema senza dubbio molto cristiano. Non
sorprende, perciò, che nelle poche pagine rimaste de L’evangèli de Bertomieu sia
così presente. Il santo appare al narratore con «lo vestit de la misèria»110 e gli si
106
Id., Las domaiselas, cit., p. 162.
Id., La grava sul camin, cit., p. 47.
108
Ibidem.
109
Ibidem.
110
Ivi, p. 167. (L’evangèli de Bertomieu è incluso nella stessa edizione).
107
48
�mostra dicendo «ieu ai coneguda la tia misèria»111 (“io ho conosciuto la tua
miseria”).
L’ieu di quest’opera incompiuta è «un miserable»112 ed è per questo che
Bartolomeo – l’apostolo che venne scuoiato – decide di fargli visita. In attesa del
Cristo, «el que se cargarà la misèria del pòble»113, “colui il quale si caricherà la
miseria del popolo”, la miseria che «rosega tot lo pòble».114
Ma a parte questo testo – su cui è impossibile esprimersi senza riserve, a
causa dello stato frammentario –, una visione speranzosa e fiduciosa nei
confronti della religione non è contemplata praticamente mai da Boudou: nei suoi
libri non ci sono “salvatori”. Avremo modo di parlare più diffusamente dei
rapporti che lo scrittore intrattiene col sacro nel quarto capitolo.
Per ora basti sapere che in Boudou la miseria è condizione riservata in larga
parte agli strati sociali più bassi (in cui rientrano i minatori, ad esempio: «la
misèria de minaires»115), prodotto di una storica lotta di classe condotta non dal
basso verso l’alto, ma dall’alto verso il basso. Così, «monsen lo curat», il signor
curato, non risulta affatto «malauros», infelice, né deve faticare molto per
mantenere lo status che ricopre.116
Di più, possiamo leggere forte scetticismo anche sull’esistenza di
un’universale provvidenza divina, poiché:
I a cap de bon Dieu pels miserables! Non, i a pas cap de bon
117
Dieu pels trimardaires!
(‘Non c’è alcun buon Dio per i miserabili! No, non c’è alcun
buon Dio per chi lavora duramente!’)
Di sicuro Boudou fa propria molto più la figura del Christus patiens
piuttosto che quella del Christus triumphans, se non altro per una maggiore
familiarità, come nella «Nòstra Dòna del Lach», la Madonna che allatta de Lo
111
Ivi, p. 168.
Ivi, p. 175.
113
Ivi, p. 182.
114
Ivi, p. 191.
115
Id., Las domaisèlas, cit., p. 105.
116
Id., La grava sul camin, cit., p. 109.
117
Id., Contes, cit., p. 180.
112
49
�libre de Catòia, con «aquel enfant pendolat al sen, noirigat de la misèria del
mond»118 (“quel bambino attaccato al seno, nutrito della miseria del mondo”).
Si può azzardare che l’immagine della Passione fosse cara a Boudou un po’
come a Pirandello, il quale – stando alla testimonianza di Corrado Alvaro –
«quando parlava di un uomo o di un personaggio sofferente lo chiamava “povero
cristo”».119
II. 10. Una miseria profonda
Ne La quimèra la miseria è un vero e proprio personaggio. È ciò che porta
la gente a ribellarsi, come nel caso della rivolta dei croquants (contadini del
Rouergue) del giugno 1643: «la misèria nos menava»120, confida uno di loro. È
«la votz de la misèria»121 a parlare in casa del povero, una casa che in realtà è
spesso «una tuta de misèria»122, uno squallido tugurio.
Il quinto capitolo della seconda parte di questo romanzo storico s’intitola
addirittura Lo païs de la misèria. È la miseria a spingere un uomo a farsi frate,
per sopravvivere, e il protagonista è un frate camminatore.123 L’indigenza che
moltiplica le disgrazie («la misèria o las misèrias?») pare aver attecchito in ogni
abitazione.124
Dins cada vilatge quand tornavi passar, d’an en an las parets se
fasián pus negras e las gents mai aissas coma se la misèria
125
creissiá.
(‘In ogni villaggio quando tornavo a passare, di anno in anno le
pareti si facevano più nere e le persone più affrante come se la
miseria crescesse.’)
Uomini e donne muoiono assai prematuramente, di stenti, «de mala
vida».126 Insomma, dappertutto la decadenza, la rovina, chissà per quanto tempo
ancora: «la misèria s’èra establida, qual sap, per totjorn?».127 Anche quando
118
Id., Lo libre de Catòia, cit., p. 252.
C. ALVARO, Prefazione a L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, vol. I, Milano, Mondadori, 1956, p. 11.
120
J. BODON, La quimèra, cit., p. 77.
121
Ivi, p. 187.
122
Ivi, p. 193.
123
Ivi, p. 203.
124
Ibidem.
125
Ivi, p. 204.
126
Ibidem.
127
Ivi, p. 206.
119
50
�pareva che le cose stessero per mutare e «semblava que la misèria s’acabava»,
cioè giungeva al termine, presto ci si disilludeva.128
Molte le cause, e tra di esse la persecuzione degli ugonotti, che aveva
costretto questi ultimi ad emigrare in altri Paesi: un impoverimento piuttosto
tangibile, pesante. E poi la fame, che miete sempre più vittime; il denaro, che non
basta mai: l’avvilimento di un intero popolo, di una «patria esclava» che agita
«sas cadenas de misèria».129
«Las misèrias del temps»130 da una parte; dall’altra, le ripetute disgrazie del
«mesquin» protagonista e narratore, che per le vie di Algeri, una volta libero,
andrà ad elemosinare del pane.131 Il microcosmo turbolento di un uomo
disgraziato, immerso nel macrocosmo di un brutale divenire storico:
E ieu… Mon istòria se pèrd. Qué pesa la mia misèria dins la
132
misèria de tot un pòble?
(‘E io… La mia storia si perde. Che peso ha la mia miseria
all’interno della miseria di tutto un popolo?’)
Una miseria che solitamente è vergognosa, ma che può anche essere vissuta
con decoro, se la persona ha la fortuna di conservare la propria dignità:
133
Cossí s’avidava? De misèria. Mas pr’aquò se picava d’onor.
(‘Come campava? Nella miseria. Ma, ciononostante,
l’affrontava con onore.’)
La miseria può essere la malattia, come il cancro dell’ieu de Lo libre dels
grands jorns, che prende il treno nel disperato tentativo di non pensare alla sua
triste situazione, «donc une façon de rompre avec l’état misérable dans lequel le
personnage se trouve».134 E ne Las domaiselas c’è chi per «la languina», cioè la
malinconia, cade in depressione.135
Viene in mente quell’aforisma di Cioran in cui un malato si domanda il
perché dei suoi dolori, a cosa gli possano mai servire, visto che non è un poeta.136
128
Ivi, p. 213.
Ivi, p. 390.
130
Ivi, p. 426.
131
Ivi, pp. 461-462.
132
Ivi, p. 449.
133
Id., Las domaisèlas, cit., p. 141.
134
J. GINESTET, Jean Boudou, la force d’aimer, cit., p. 48.
135
J. BODON, Las domaiselas, cit., p. 103.
136
E. M. CIORAN, Sillogismi dell’amarezza, trad. it. di C. Rognoni, Milano, Adelphi, 1993, p. 121.
129
51
�Ma Boudou sa benissimo che anche i poeti possono trarre poco giovamento dalle
loro miserie, come sa benissimo che litterae non dant panem, che agli scrittori,
insomma – almeno nella stragrande maggioranza dei casi – non è riservata
un’esistenza agiata o felice. Basti pensare a «lo cocut de la Crotz Vièlha» (“il
cornuto della Croce Vecchia”) che compare ne La grava sul camin, un
pover’uomo che pativa «la misèria mas que se disiá poèta»137.
Nei Contes dels Balssàs Honoré de Balzac – lontano antenato della madre
di Boudou – viene assunto quale idolo da dissacrare, scrittore per antonomasia,
uomo cioè buono a nulla agli occhi di un mondo di braccianti: «escrivan es pas
un mestier!»138 esclama, infatti, uno dei suoi personaggi. Al più – viene concesso
sarcasticamente – può trattarsi di un mestiere «de fenhant e de crèbamisèria»139,
ovvero da perdigiorno e da morti di fame.
137
J. BODON, La grava sul camin, cit., p. 73.
Id., Contes dels Balssàs, cit., p. 11.
139
Ivi, p. 10.
138
52
�III. IO E L’ALTRO
Unicamente la mediazione altrui può assegnare a un individuo
la parte di ciò che è Altro. In quanto creatura che esiste in sé, il
bambino non arriverebbe mai a cogliersi come differenziazione
1
sessuale.
SIMONE DE BEAUVOIR
III. 1. Sud e Nord
Questo capitolo è incentrato su dualismi. La dicotomia da cui cominciamo è
quella tra Nord – di lingua francese, l’antica langue d’oïl – e Sud – di lingua
occitana, la cosiddetta langue d’oc – della Francia. Leggiamo in Lafont che
La “vraie France, la France du Nord”, comme l’écrit Michelet, a
toujours ressenti son Midi comme un Autre, Autre climatique,
2
paysagistique, Autre humain surtout.
Una discrepanza che in questo caso si riduce ad un rapporto tra oppressori e
oppressi, che ha il suo diretto riflesso nella storia delle due rispettive letterature.
Secondo la ricostruzione revanscista di Lafont, la poesia epica e la poesia lirica
europee nascono entrambe come “occitane”, tra XII e XIII secolo, ma la causa
capetingia s’impossessa dell’epica e imita in minore la lirica.3 In tal modo si è
affermata – con la forza – la tradizione che vuole il Nord della Chanson de
Roland «héroique et mâle» e il Sud dei trovatori «plaisant et féminin».4
Un’alterità che è innanzitutto politica ed economica. E Boudou se ne mostra
consapevole, quando nella sua cronaca – apparsa sul giornale aveyronese “Le
Saint-Affricain” – intitolata Propos d’un occitan scriveva:
Le plus important ce n’est pas la langue, c’est la vie du pays.
L’interdiction du ‘patois’ à l’école primaire, l’enseignement de
‘l’occitan’ au lycée, ne seront que des mesures dérisoires tant
1
S. de BEAUVOIR, Il secondo sesso, trad. it. di R. Cantini e M. Andreose, Milano, Il Saggiatore, 2002, p. 325.
R. LAFONT, Le Sud ou l’Autre. La France et son Midi, cit., p. 6.
3
Ibidem.
4
Ivi, p. 49.
2
53
�que la prospérité économique de l’Occitanie ne sera pas
5
assurée!
Erano pensieri comuni a tutti gli intellettuali che ruotavano attorno al
movimento occitanista e allo slogan «Volèm Viure al Païs Òc».6 Un movimento
che aveva orizzonti europei:
Nous pensons qu’en défendant l’Occitanie nous défendons
l’ensemble de la nation et nous favorisons son insertion dans
une Europe pacifique. Si les activités économiques ne sont pas
harmonieusement réparties sur l’ensemble du territoire national,
si certaines zones sont abandonnées à leur misère, peut-on
7
parler encore de solidarité nationale et qui sont les séparistes?
E che si opponeva in sostanza alla centralizzazione politica e al monopolio
economico di Parigi: «tout le pouvoir de décision se trouve dans la région
parisienne, toutes les facilités aussi».8 Non si trattava di un’azzardata
rivendicazione secessionista, ma di una richiesta legittima se non necessaria:
quella di «une nouvelle organisation de l’espace national».9
La capitale esercita un’attrazione quasi fatale, del resto: «París, amont, la
granda vila dels milanta calelha ont se gagna d’argent»10 (“Parigi, lassù, la
grande città dalle migliaia di luci dove si fanno i soldi”); la città verso cui emigrò
il padre di Honoré de Balzac, facendo disperdere «la raça dels Balssàs»11; Parigi,
che tanto affascina la giovane Ferrasà Balssana, promessa sposa di Antòni. La
loro unione non si celebrerà mai, perché il giovane non è disposto a seguirla, per
fedeltà alle radici: «ni per femna ni per amor, lo meu ostal passa davant».12
Per Parigi partono pure i giovani de Las domaisèlas, e in gran numero, al
punto che interi villaggi si spopolano13; per le vie della Ville Lumière vorrebbe
andarsi a perdere il je de Lo libre dels grands jorns.14 La Parigi, poi, dei re (e «lo
5
Joan Bodon: documents, cit., p. 148.
Ivi, p. 150.
7
Ivi, p. 153.
8
Ivi, p. 164.
9
Ivi, p. 166.
10
Id., Contes dels Balssàs, cit., p. 9.
11
Ivi, p. 114. Il luogo d’origine dei Balssàs era tra il Tarn (l’Albigese) e l’Aveyron (o Rouergue), dipartimenti separati
dal fiume Viaur.
12
Ivi, p. 150.
13
Id., Las domaisèlas, cit. p. 36.
14
Id., Lo libre dels grands jorns, cit., p. 28.
6
54
�rei de París es pas lo nòstre rei»15 si osserva ne La quimèra), del loro lusso a
Versailles reso possibile dalle imposte sul tanto bistrattato Sud.16
III. 2. Occitano e francese
«La mia maire l’ai pas renegada, ela que jamai a pas sabut parlar francés»,
confessa Henri Mouly, amico e mentore di Boudou, nonché personaggio de La
Santa Estela del Centenari. Mouly era un félibre e «un felibre es un òme que
renèga pas sa maire»: Joseph Roumanille – fondatore del Félibrige e maestro di
Frédéric Mistral – adottò il provenzale perché lingua di sua madre.17
Ne La grava sul camin, ad un certo punto, sul treno di ritorno il
protagonista rimane insieme ad altri meridionali e con loro viene naturale parlare
in lingua d’oc.18 Il francese, invece, risulta alle orecchie piuttosto estraneo: «a
fòrça d’ausir […], finiguèri per comprene un bocin de francimand»19 (“a forza di
ascoltare […], finii per comprender un pochino di francese”).
Se l’Occitania esiste ancora oggi, principalmente è grazie al suo enorme
patrimonio culturale. Dal momento che «les occitans n’ont d’autre pays à vivre
que leur littérature et que la perte de la langue serait un désastre», diventa
fondamentale «far païs par l’écriture».20
La quimèra – l’opera più manifestamente occitanista di Boudou – è
dedicata al padre, l’uomo che per primo gli prospettò «l’idèa d’una patria
occitana».21 La lingua e l’identità occitana sono per lo scrittore, dunque, l’eredità
più grande che i genitori gli abbiano lasciato.
Quell’occitano – «la lenga de l’ostal, la lenga del trabalh» – tradito e
disprezzato finanche dai locali, «los afrancimandits» (“i francesizzati”) che lo
chiamano patois (in francese: “dialetto”) o «lenga de las bèstias».22 Perciò non
era insegnato nelle scuole, e, anzi, ogni qual volta un bambino pronunciava tra i
15
Id., La quimèra, cit., p. 113.
Ivi, p. 135.
17
Id., La Santa Estela del Centenari, cit., pp. 74-75. Anche Boudou rimane fedele a questa eredità materna.
18
Id., La grava sul camin, cit., p. 48.
19
Ivi, p. 62.
20
R. MARTY, Terres de l’homme ou le monde poétique de Jean Boudou, cit., p. 8.
21
J. BODON, La quimèra, cit., dedica, p. 5.
22
Id., La Santa Estela del Centenari, cit., p. 38.
16
55
�banchi una parola in lingua d’oc, veniva punito e segnato con un cartello (con la
scritta “asino” in maiuscolo).23
Anche il poeta regionalista (rouergate come Boudou) François Fabié –
stando sempre all’Henri Mouly de La Santa Estela del Centenari – ha
sconfessato quella che, in teoria, doveva essere la sua vera lingua madre,
preferendole il francese.24 Poi Mouly ricorda il felibrismo, la sua prestigiosa
fondazione del 21 maggio 1854 (il giorno della Santa Estela, appunto, di cui nel
romanzo si celebra il centenario).
Ma non tutti conoscono la corrente che aveva in animo la rinascita
linguistica e letteraria dell’occitano. Ed ecco insinuarsi la causticità boudouniana:
il narratore e protagonista non ha mai sentito parlare né di Roumanille né di
Mistral (che addirittura scambia con il mistral, il vento che spira dalla valle del
Rodano), perché a scuola non si studiano.25 Al che Mouly sbotta: «l’escòla de
França que coneis pas Mistral, el que recebèt lo Prèmi Nobel!».26
La comicità della penna di Boudou tocca l’acme con questa battuta sulla
celebre Mirella (Mirelha in ortografia antica e qui, Mirèio in Mistral): «a l’ostal
aviàm una canha de caça que l’apelàvem aital».27 Da fanciulla cantata in un
poema a cagna da caccia! Dissacrante è dire poco.
Ne Lo libre dels grands jorns il protagonista è a Clermont Ferrand. E fu a
Clermont che Urbano II pronunciò nel 1095 il famoso appello per la prima
crociata («Dios lo volt! Dios lo volt!»).28 La crociata che fu verseggiata in lingua
d’oc: tra Guglielmo IX d’Aquitania, il primo trovatore, che si lamentava di dover
partire (in Pos de chantar m’es pres talenz), e Jaufré Rudel, che «pensava
solament a sos amors de tèrra lonhdana: la comtessa de Tripoli» (citata Lanquan
li jorn son lonc en mai).29
23
Ivi, p. 39.
Ibidem. Eppure, nella raccolta poetica – pubblicata solo nel 2010 – La cançon del pais (1948), Boudou a Fabié aveva
dedicato alcuni versi e si può ragionevolmente supporre che non lo avesse in odio, visto che gli dà del tu e lo chiama
persino “fratello”: in Id., Poèmas, cit. p. 225.
25
Id., La Santa Estela del Centenari, cit., p. 75. Il romanzo fu scritto negli anni ’50 e pubblicato nel 1960: da allora la
situazione per l’occitano è di molto migliorata.
26
Ibidem.
27
Ivi, p. 79.
28
Id., Lo libre dels grands jorns, cit., p. 44.
29
Ivi, p. 45.
24
56
�Di seguito vengono rammentati Bertran de Born, Giraut de Bornelh,
Gaucelm Faidit, Peire Vidal, Folquet de Marselha30; più avanti compaiono anche
Arnaut Daniel e Guiraut Riquier.31 L’amor de lonh viene sarcasticamente
declassato all’amore carnale32, di fronte alla coscienza di una terra – in questo
caso l’Alvernia conquistata da Cesare – che non conserva la sua «vertadièira
lenga romana»33, cioè la sua “vera lingua romanza”; una terra che ha scuole, licei
e facoltà «francimandas», che non accolgono né i trovatori né i félibres.34
Tra i banchi il maestro usa il francese, fuori però parla l’occitano, come il
prete ai poveri vecchi, «coma nosautres».35 E pure l’uso del plurale sembra
negato dall’evidenza, che è assenza di locutori: «nosautres, la nòstra… mas soi
tot sol…».36 Non rimane per l’ieu che subire il disprezzo, anzi «encara mens que
lo mesprètz: l’indiférencia sens onor».37 E accettarlo, con rassegnazione (ma
anche con poesia, visto che quelli che riportiamo sono tre octosyllabes in rima fra
loro, sebbene celati nella prosa):
Mas es aital, pas autrament. Se pòt pas amassar lo vent. Qual
38
pòt nadar contra corrent?
(‘Ma è così, non altrimenti. Non si può fermare il vento. Chi
può nuotare controcorrente?’)
Una lingua non è viva se non può dar vita ad ogni cosa, nominandola con
un suo termine: ora paire, ora maire, ora ostal. Le cose traggono forma dalle
parole: «las causas prenon la color dels mots».39 Oggi il francese dà vita – lo
assicura addirittura l’apostolo Giovanni – ed è «la sola lenga viva»40, perché
bisogna ben «distinguir l’Existéncia e la Vida».41
30
Ivi, p. 46.
Ivi, p. 51.
32
Ivi, p. 47.
33
Ivi, p. 50.
34
Ibidem. Cfr. nota 25.
35
Ivi, p. 57.
36
Ivi, p. 62.
37
Ivi, p. 39.
38
Ivi, p. 50. Chiaro il ricordo dei versi dalla vida di Arnaut Daniel: «ieu sui Arnautz qu’amas l’aura / e chatz la lebre ab
lo bou / e nadi contra suberna» (“io sono Arnaut che ammassa l’aria / e va a caccia del bue con la lepre / e nuota
controcorrente”), cit. in A. DANIEL, Sirventese e canzoni, trad. it. di F. Bandini e a c. di G. Lachin, Torino, Einaudi,
2000, p. 86.
39
Ivi, p. 58.
40
Id., La Santa Estela del Centenari, cit., p. 249.
41
Ibidem.
31
57
�Allora perché credere alla rinascita, «al reviscol de la lenga d’òc»?42 Perché
ancora sognare l’occitano come interlingua, come lingua franca d’Europa?43
Perché, se muore definitivamente, muore presto con lei anche l’uomo («morís la
lenga, morirai lèu»)44 o, almeno, una parte di umanità che in quelle consonanti e
in quelle vocali si riconosce.
Forse tutto questo può suonare un po’ contraddittorio. Ma, sempre ne Lo
libre dels grands jorns, dopo i trovatori, fa capolino François Villon, poeta
parigino, con i primi tre versi della sua Ballade du concours de Blois (nota anche
come “Ballata delle contraddizioni”), tradotti in lingua d’oc:
Crèbi de set al prèp de la fontana.
Caud coma fuòc, tremoli dent a dent.
45
Al meu païs soi en tèrra lunhana…
Muoio di sete vicino alla fontana.
Caldo come fuoco, tremo dente a dente.
Nel mio paese son in terra lontana…
III. 3. Femmina e maschio
La donna, si sa, è – come in un immortale verso di Guido Gozzano – un
«mistero senza fine bello».46 E Simone de Beauvoir si chiede cosa ci sia dietro
tale enigma: «un angelo, un demone, un’ispirata, una commediante?». Domande
vane, inadeguate, riferisce la pensatrice francese, «in quanto una fondamentale
ambiguità è insita nell’essere femminile», poiché, «in cuor suo, la donna è per se
stessa indefinibile: una sfinge».47
La statunitense Judith Butler ricopre un ruolo cruciale nella riflessione
femminista e queer contemporanea. La filosofa post-strutturalista ha spiegato che
«le condizioni che determinano il nostro genere sono, fin dall’inizio, al di fuori di
noi, al di là di noi stessi, in una socialità che non ha un singolo autore».48 Difatti:
Né il genere né la sessualità sono esattamente qualcosa che si
possiede, ma rappresentano un modo di essere spossessati, modi
49
di essere per l’altro o in virtù dell’altro.
42
Id., Lo libre dels grands jorns, cit., p. 61.
Ivi, pp. 62-63.
44
Ivi, p. 52.
45
Ivi, p. 58. [L’originale (medio francese): «Je meurs de seuf auprès de la fontaine, / chault comme feu, et tremble dent
a dent; / en mon païs suis en terre loingtaine», in F. VILLON, Opere, trad. it. di A. Carminati e di E. Stojkovic
Mazzariol, a c. di E. Stojkovic Mazzariol, Milano, Mondadori, 1981, p. 228].
46
G. GOZZANO, La signorina Felicita ovvero la Felicità, in Id., I colloqui, Milano, Fratelli Treves, 1917, p. 75.
47
S. de BEAUVOIR, Il secondo sesso, cit., p. 309.
48
J. BUTLER, La disfatta del genere, a c. di O. Guaraldo, trad. it. di P. Maffezzoli, Roma, Meltemi, 2006, p. 25.
49
Ivi, p. 45.
43
58
�Scrive Lafont che in Boudou è presente un vero e proprio mito della
femminilità, come una costante, «un axe, una permanéncia».50 Il critico letterario
Rémi Soulié ha dedicato uno studio all’opera dello scrittore rouergate, dandone
una lettura psicoanalitica: alla luce di Freud, ma soprattutto di Lacan, facendo
riferimento al concetto di donna come Altro.51
Ogni volta che un personaggio maschile di Boudou conosce una donna, «il
voit rouge, littéralement».52 Più che d’incontri, si sarebbe tentati di parlare
d’apparizioni, in effetti. Praticamente nessuno degli uomini protagonisti mostra
di avere confidenza con l’altro sesso, il quale, anzi, pare sempre un universo
remoto, da scoprire ex novo.
Ne La grava sul camin la scarsa esperienza è uno dei motivi che conduce
l’ieu ad accettare le nozze con una donna che non ama né apprezza esteticamente,
Cristiana: «ieu que me cresi tant, cap de polida filha me vòl pas!»53 (“io che mi
do tante arie, [ma non c’è] nessuna bella ragazza che mi voglia!”).
Una donna in Boudou può incutere soggezione già a vista, come ne La
Santa Estela del Centenari, con la forse neanche diciottenne («pas benlèu dètz-euèch ans») Joseta, così dolce e candida che il narratore quasi non osa rivolgerle
lo sguardo («doça e blanca que gausèri pas la desvistar»).54
Una donna che sorprende, come Fernanda che accoglie calorosamente
Amanç, il protagonista de Lo libre de Catòia, pur non avendolo mai incontrato
prima. La giovane non parla la stessa varietà di occitano parlata da Amanç, ma il
guascone: la difficoltà d’intercomprensione porta addirittura i due ad esprimersi
in francese («il vaut mieux que nous parlions français»)55, anche se presto le
parole – in qualsiasi lingua – non serviranno, lasciando il posto al puro
sentimento.
Nosautres dos nos agachàvem. Perqué parlar? Sus las nòstras
pòtas ça que la, lo francimand podiá pas espelir. O puslèu,
50
R. LAFONT, Lo mite de la feminitat dins l’òbra romanesca de Bodon, in J. Boudou (1920-1975), Actes du Colloque
de Naucelle (27, 28 et 29 septembre 1985), cit., p. 160.
51
R. SOULIÉ, Les chimères de Jean Boudou, cit., p. 39.
52
Ivi, p. 53.
53
J. BODON, La grava sul camin, cit., p. 121.
54
Id., La Santa Estela del Centenari, cit., p. 158.
55
Id., Lo libre de Catòia, cit., p. 229.
59
�quand espelissiá, que ne viràvem qualque frasa condrecha, nos
56
compreniàm ben tant, mas alara quicòm nos desseparava.
(‘Noi due ci guardavamo. Perché parlare? Sulle nostre labbra,
comunque, il francese non poteva schiudersi. O piuttosto,
quando si schiudeva, ché ci scambiavamo qualche frase
corretta, ci capivamo abbastanza bene, ma allora qualcosa ci
separava.’)
Quasi sempre in Boudou è la donna a condurre l’uomo, non viceversa (il
che non dovrebbe stupire, visto quello che si è detto nel secondo capitolo): «ela
me tirava pel braç»57, «la mia man sus la tia man»58, «mon passes dins los passes
de Fernanda»59. Il colpo di fulmine si ripete ne La quimèra, con Lilon:
Piquèri a la primèira pòrta. Es una filha jove que me dobriguèt.
M’agachèt. L’agachèri. Un moment aital, coma se podiàm pas
60
dire res.
(‘Bussai alla prima porta. Fu [ma B. usa il presente] una
giovane fanciulla ad aprirmi. Mi guardò. La guardai.
[Restammo] un momento così, come se non potessimo dire
niente.’)
Anche Lilon guida il protagonista maschile: è lei ad indicargli la strada ed è
ancora lei a prendere iniziativa: «Pren-me endacòm! Pren-me […] Al teu ostal»61
(“portami da qualche parte! Portami […] A casa tua”). Non c’è – non è una
novità – una vera e propria volontà da parte dell’ieu, nemmeno nel bacio: «sabi
pas qual comencèt mas nos potonèrem»62 (“non so chi cominciò ma ci
baciammo”).
III. 4. Fate pericolose
Una donna che non è più quella di rango sociale superiore come l’amata dei
trovatori, né l’innocente fanciulla della letteratura félibre: no, semplicemente
«elle est de son temps».63 Poi, è vero, in Boudou c’è spazio anche per le fate,
esseri femminili fuori dal tempo e di un altro mondo.
56
Ivi, p. 231.
Ivi, p. 228.
58
Ivi, p. 232.
59
Ivi, p. 235.
60
Id., La quimèra, cit., p. 37.
61
Ivi, p. 42.
62
Ivi, p. 41.
63
J. GINESTET, Jean Boudou, la force d’aimer, cit., p. 120.
57
60
�Come Morgana, esse rappresentano per l’uomo un pericolo mortale da
scongiurare, e, come Melusina, sono sempre legate all’elemento acquatico.64 Si
tratta di sirene o di ondine, che ricordano da vicino la Lorelei del Reno, cara a
certe leggende di Germania e cantata da Heinrich Heine.
Boudou adattò all’occitano il testo tedesco originale di uno dei Lieder del
poeta romantico (è il canto che inizia con Ich weiß nicht was soll es bedeuten), in
una poesia inedita fino al 2010 e intitolata La Lorelei.65 Questa viene descritta
come una fanciulla bellissima, dai capelli dorati, che, mentre si pettina, incanta
con la sua melodiosa voce un barcaiolo, il quale, distratto, non vede gli scogli e
viene inghiottito dalle onde.
Il fiume dal quale emerge questa sublime creatura in Boudou, chiaramente,
non può essere il Reno, ma il ben più familiare – perché scorre nel suo Aveyron –
Viaur. Lo scrittore sulla femna de Viaur ha composto una poesia (della raccolta
Frescor de Viaur, pubblicata soltanto postuma), in cui cita anche la Lorelei («los
Alemands me’n parlèron, / l’apelavan Lorelei»66: “i tedeschi me ne parlarono, / la
chiamavano Lorelei”).
La filha de Viaur è, del resto, uno dei Contes de Viaur. Il protagonista di
questa fiaba è un giovane di Crespin – il villaggio natale di Boudou – di nome
Andrieu. Un mago gli promette una figlia del Viaur – la personificazione del
fiume – come futura sposa. Le figlie della divinità fluviale dapprima si mostrano
sotto forma di anguille, poi con l’aspetto di bellissime (e nude) ragazze. Andrieu
ne sceglierà una come moglie, dopo aver perso, per sortilegio, la memoria del
passato.
Una delle sorelle della sposa, gelosa, farà in modo che l’incantesimo si
spezzi e che l’uomo possa tornare a casa. Ma il gesto non sarà senza
conseguenze. In quel magico mondo sotterraneo il tempo non esiste67 ed uscirne
significa invecchiare di cinquant’anni in un sol momento, sentirseli gravare
64
Sull’argomento un riferimento fondamentale rimane lo studio di L. HARF-LANCNER, Morgana e Melusina. La
nascita delle fate nel Medioevo, trad. it. di S. Vacca, Torino, Einaudi, 1989.
65
in J. BODON, Poèmas, cit., p. 279. [La traduzione italiana (di A. Vago) del Lied originale è in H. HEINE, Il libro dei
canti, Torino, Einaudi, 1962, p. 164].
66
Ivi, p. 217.
67
Sulle fiabe il primo riferimento rimane il cosiddetto “sistema di classificazione Aarne-Thompson”. Si veda A.
AARNE, S. THOMPSON, The types of the folktale: a classification and bibliography, Helsinki, Academia scientiarum
Fennica, 1973.
61
�addosso tutti in una volta: «aqueles cinquanta ans passats aval dins lo païs de jos
la tèrra venián pesar d’un còp sus las espatlas d’Andrieu».68
La filha de Viaur – anche se il Viaur è diventato Gaur – ritorna pure ne Las
domaisèlas. Tutta nuda e bianchissima, come al solito, e si chiama Germana.
L’incontro con la fata è un’epifania, una luminosa epifania: «una filha rajolanta
davant el se tira de l’aiga».69 Ma chi è questa creatura del fiume, chi è (o cosa è)
veramente Germana?
O la serena de las legendas, o la romèca, l’elementala… Benlèu
70
semblança, solament fantauma o farfantèla de desirança.
(‘O la sirena delle leggende, o la rumeca [essere fantastico
malvagio], l’elementale… Forse parvenza, solamente fantasma
o miraggio del desiderio.’)
In Boudou è, quindi, femminile sia la fonte primigenia dell’ispirazione (la
madre Albanie) sia l’ultima invenzione, la fata Germana de Las domaisèlas.71
Secondo le parole di Joëlle Ginestet, più che un romanzo incompiuto, Las
domaisèlas sarebbe un’opera che si conclude con la possibilità di una scelta, di
una via d’uscita.72
Il potere della donna è quello di dare la vita e la sua voce sembra avere il
vigore che serve per vincere «la bataille du masculin-fémenin».73 Se il maschio è
il Nord e il francese, la femmina non può che essere il Sud e l’occitano. I rapporti
di forza non sono, però, immutabili.
Scrive, infatti, Simone de Beauvoir che «ogni oppressione crea uno stato di
guerra»74 e che la disputa non potrà mai finire se «gli uomini e le donne non si
riconosceranno come simili»75. Allo stesso modo, potremmo parafrasare, se il
francese e l’occitano non si dichiareranno fratelli alla pari, lo scontro non potrà
concludersi. Boudou, forse, chiamando la fata Germana («Germana: sòrre»76) e
definendo Fernanda “una sorella”77, voleva dirci proprio questo.
68
in J. BODON, Contes, cit., p. 178.
Id., Las domaisèlas, cit., p. 56.
70
Ivi, p. 58.
71
J. GINESTET, Jean Boudou, la force d’aimer, cit., p. 38.
72
Ivi, p. 25.
73
Ivi, p. 38.
74
S. de BEAUVOIR, Il secondo sesso, cit., p. 820.
75
Ivi, p. 821.
76
J. BODON, Las domaisèlas, cit., p. 59.
77
Id., Lo libre de Catòia, cit., p. 229.
69
62
�III. 5. L’identità assente
Il punto di vista che abbiamo adottato fin qui, però, può essere rovesciato
diametralmente. Lo ha fatto, ad esempio, Joan (Jean) Fulhet. Il linguista e
studioso dell’occitano sostiene che sia il francese ad essere «lo signe de
l’alteritat, de la feminitat», ricordando, a ragione, che in Boudou «la relation a
l’autre sèxe es pèrda d’identitat». L’uso dell’altra lingua manifesterebbe,
dunque, tanto il desiderio come l’interdizione.78
Secondo Fulhet, quindi, la perdita d’identità caratterizza sia la scrittura
boudouniana in sé che l’atto sessuale, «la fusion a l’autre sèxe» descritta nelle
sue opere.79 La sostituzione del francese con l’occitano corrisponde, in un altro
livello, alla «ruptura de l’equilibri del mond», in quanto:
Dins un univèrs ont sola la comunicacion immediata se fa en
òc, ont la comunicacion diferida o a distancia – la dels registres
escriches – reven en propri al francés, l’escriptura occitana pòt
èsser sonque abséncia de ligam, e l’espaci de l’escriveire
occitan sonque un non-mond comparable a lo de l’alienacion,
80
del baujum.
(‘In un universo dove solo la comunicazione immediata si fa in
lingua d’oc, dove la comunicazione differita o a distanza –
quella dei registri scritti – spetta propriamente al francese, la
scrittura occitana può essere soltanto assenza di legame, e lo
spazio per lo scrivere in occitano soltanto un non-mondo
paragonabile a quello dell’alienazione, della follia.’)
E così il protagonista de La grava sul camin dubita di essere un “vero
uomo” («mas non, soi pas un òme, ieu»81), così Catòia ha bisogno di dirsi da solo
chi è, per riconoscersi e accettarsi:
Òc, soi Catòia. Catòia l’Enfarinat. Jamai soi pas estat coma los
autres. Jamai. Perque soi Catòia. E tanben perque soi
82
Enfarinat.
(‘Sì, sono Catoia. Catoia l’Infarinato. Mai sono stato come gli
altri. Mai. Perché sono Catoia. E pure perché sono Infarinato.’)
Così l’eunuco schiavo de La quimèra si chiede cosa sia diventato («me
demandi çò que soi»), perché nessuno può più considerarlo un uomo («degun me
78
J. FULHET, Masculin, femenin e dualitat linguistica dins l’òbra de Joan Bodon, in «Òc», n° 43, 1997, p. 26.
Ivi, p. 25.
80
Ibidem.
81
J. BODON, La grava sul camin, cit., p. 124.
82
Id., Lo libre de Catòia, cit., p. 15.
79
63
�pren pas pus per un òme»)83. Il fatto è che egli non si può ritenere neanche una
femmina, alla quale è pure subordinato, ma piuttosto una specie di strano
animale:
Filhas e femnas me comandan. Quand ne vira, se meton nusas
davant ieu e lor pòrti d’aiga per la teleta. Soi pas mai un òme
84
per degun. Miòl defòra, cat dedins: aital es l’eunuc.
(‘Fanciulle e donne mi comandano. Quando capita, si mettono
nude davanti a me e porto loro dell’acqua per la toilette. Non
sono più un uomo per nessuno. Mulo fuori, gatto dentro: così è
l’eunuco.’)
Del resto, Simone de Beauvoir aveva definito la femmina come il «prodotto
intermedio tra il maschio e il castrato», il risultato di processi legati alla storia e
alla civiltà, perché «donna non si nasce, lo si diventa».85
III. 6. Diventare donna
Il romanzo incompiuto Las domaisèlas e il frammento intitolato L’òme que
èri ieu sono entrambi incentrati sulla femminilizzazione del maschio. Se si pensa
che il primo risale agli anni ’70 e che il secondo fu iniziato nel 1960, non si può
non rimanere stupiti dall’audacia di Boudou.
L’alienazione ne Las domaisèlas è evidente persino nella scelta di un
narratore in terza persona, che – fatta eccezione per alcuni Contes – Boudou non
compie mai altrove. Ciò comunque non deve portare a credere che il protagonista
non sia in qualche modo legato all’io di chi scrive: si chiama Clamenç e Clément
è il secondo nome dell’autore.
Leggiamo così che ai tempi delle lunghe guerre per la Repubblica e di
Napoleone, quando le madri partorivano da sole, più di un neonato maschio fu
dichiarato all’anagrafe come femmina, e come tale battezzato, per scampare alla
coscrizione, una volta adulto. Da adulte queste persone non si sarebbero mai
sposate, dato che «sabián pas solament s’avián una natura», cioè non sapevano
neanche di avere un sesso.86
83
Id., La quimèra, cit., p. 19.
Ivi, p. 22.
85
S. de BEAUVOIR, Il secondo sesso, cit., p. 325.
86
J. BODON, Las domaisèlas, cit., p. 93.
84
64
�Come segnala Pierre Canivenc nella nota all’edizione de Las domaisèlas da
lui curata (la stessa che abbiamo fin qui citato e che include anche L’òme que èri
ieu), il guascone Michel de Montaigne in una pagina dei suoi Saggi (I, XXI)
aveva raccontato un episodio simile:
Passando per Vitry-le-François potei vedere un uomo che il
vescovo di Soissons alla cresima aveva chiamato Germano [si
noti la coincidenza: che l’idea di “Germana” Boudou l’abbia
attinta da questo passo?], e che tutti gli abitanti di lì hanno
conosciuto e visto come ragazza, fino all’età di ventidue anni,
87
col nome di Maria.
Via la memoria, via il sesso, via, soprattutto, il senno. Sempre Montaigne
(in Saggi, I, IX) rammenta che dalle sue parti «se si vuol dire che un uomo non
ha senno, si dice che non ha memoria».88 Il termine esatto a cui il filosofo allude
è desmemoriat.
Boudou sembra averlo ben presente quando fa definire – sì, al femminile –
«desmemoriada»89 Ramon, ne L’òme que èri ieu inspiegabilmente trovatosi
donna («d’un còp me soi trobada femna»90). A nulla vale l’opposizione tentata
dall’uomo o presunto tale, che tutto dice di ricordare («mas me soveni, me soveni
de tot»), cioè di essere sposato e avere dei figli («la mia femna, mos enfants»).91
Nessuno, comunque, gli crede, anzi gli si prospetta il reale rischio di finire
rinchiuso in manicomio, se non sarà in grado di tenere a bada il «gran de foliá»
che ogni uomo e ogni donna nasconde nella propria testa, sempre pronto a
germogliare.92
E poi altre figure, accomunate tutte da un’unica certezza: un destino di
derisione e di emarginazione. Quale quello riservato a dei minatori, costretti a
lavorare e vivere in condizioni disumane, letteralmente bestiali, e vestiti come
delle domestiche: «cossí los apelar d’òmes encara?»93 Come chiamarli ancora
uomini?
87
M. de MONTAIGNE, Saggi, a c. di F. Garavini, Milano, Adelphi, 1992, p. 126.
Ivi, p. 41.
89
J. BODON, Las domaisèlas, cit., p. 202.
90
Ivi, p. 195.
91
Ivi, p. 203.
92
Ivi, p. 206.
93
Id., Las domaisèlas, cit., p. 108.
88
65
�E sotto Vichy furono messi al bando le persone “dalle idee sovversive”
come «los radicals-socialistas, los francs-maçons, los josieus, los afemelits, los
comunistas, los internacionalistas, los intellectualistas, los pacifistas» (“i radicalsocialisti, i massoni, gli ebrei, gli effeminati, i comunisti, gli internazionalisti, gli
intellettuali, i pacifisti”). Insomma, i presunti traditori della patria: «totes aqueles
que per lors messorgas avián fach tant de mal al pòble de França»94 (“tutti quelli
che per le loro menzogne avevano fatto tanto male al popolo di Francia”).
Al personaggio di Lesin Resièr – uno di quegli “effeminati” di cui sopra –
viene dedicato un intero capitolo. Capelli lunghi e vestiti da donna, la vita e il
bisogno lo conducono a Parigi. Presto diventerà una sorta di attrazione di Pigalle:
sbeffeggiato, soprannominato “Melusina” – rieccola – come la celebre fata, la
«femna-sèrp».95 Alla derisione si aggiungono pure le sevizie; poi, arriva il 1940.
Arrestato per i motivi già detti, viene umiliato anche in prigione. Il consiglio di
guerra lo giudica folle e lo sistema in un ospedale psichiatrico.
Cada doctor aviá son idèa. Un lo voliá virilisar amb d’ormonàs
masclas. L’autre, al contrari, amb d’ormonàs femes voliá
96
accelerar l’evolucion començada.
(‘Ogni dottore aveva la sua idea. Uno lo voleva virilizzare con
degli ormoni maschili. Un altro, al contrario, voleva accelerare
la trasformazione intrapresa con degli ormoni femminili.’)
III. 7. L’alienazione
Lesin viene trasferito da Parigi a Lione e da Lione a Tolosa, poi ad Albi,
infine a Rodez, nella stessa clinica in cui si trova Antonin Artaud.97 Questi fu
davvero più volte internato, per svariati anni, e a Rodez rimase dal 1943 al 1946,
subendo l’elettroshock98, abominevole “terapia” allora tristemente diffusa. Il
titolo della raccolta poetica di Boudou Res non val l’elettrochòc – l’elettroshock
non serve a niente – è ispirato all’attore.99
Ne la Santa Estela del Centenari è una scarica elettrica100 a terminare
l’allucinato racconto di Ambròsi Lorei, facendolo precipitare nella fontana di
94
Ivi, p. 102.
Ivi, p. 126.
96
Ivi, p. 128.
97
Ivi, p. 129.
98
http://it.wikipedia.org/wiki/Antonin_Artaud.
99
J. GINESTET, Jean Boudou, la force d’aimer, cit., p. 124.
100
J. BODON, La Santa Estela del Centenari, cit., p. 230.
95
66
�Nîmes (una scena che aveva riportato alcune pagine prima, come vedendola
dall’esterno). Ambròsi, anch’egli ospite dell’ospedale psichiatrico di Rodez, è il
narratore di secondo grado, l’autore e il protagonista dei quaderni che
contengono la vicenda che leggiamo.
Artaud denunciò il sistema sociale e psichiatrico di cui fu vittima,
giudicandoli rei di alienare i cosiddetti “folli”: emarginati, etimologicamente eliminati, perché scomodi, perché non manipolabili. Questo era evidente, a suo
avviso, considerando quanto era accaduto a Van Gogh: «un alienato» – scrisse
nel testo che dedicò al pittore olandese – «è anche un uomo che la società non ha
voluto ascoltare e al quale ha voluto impedire di proferire insopportabili
verità».101
Artaud, nel libro di Boudou, dice all’amico Lesin «te cal èsser qualqu’un» e
Lesin pensa di prendere il potere, di diventare dittatore della Francia. Il
suggerimento è un più che probabile riferimento alla performance radiofonica
(censurata però dalla radio francese) chiamata Per farla finita col giudizio di dio,
che il marsigliese preparò nel 1947, un anno prima di morire.
Si tratta di una spietata filippica – d’altronde, stiamo parlando del “teatro
della crudeltà” – contro gli Stati Uniti, capitalisti e materialisti, contro i preti e
contro il dio delle religioni, principale imputato. Si salva l’uomo, o almeno
l’uomo libero, che non ha “timore di mostrare l’osso e di perdere la carne”:
Pour exister il suffit de se laisser aller à être, / mais pour vivre, /
il faut être quelqu’un, / pour être quelqu’un, / il faut avoir un
OS, / ne pas avoir peur de montrer l’os, / et de perdre la viande
102
en passant.
Nei versi citati Artaud accenna ad una distinzione tra esistere e vivere che
ricorda molto quella che Boudou – sotto forma dell’apostolo Giovanni –
antifrasticamente, amaramente, fa a proposito del dualismo francese-occitano, di
cui abbiamo discusso in precedenza:
E ja son mòrtas totas las autras lengas. E los òmes que las
parlan encara, se vòlon gardar la Vida, es venguda per eles l’ora
101
A. ARTAUD, Van Gogh il suicidato della società, a c. di P. Thévenin, trad. it. di J.-P. Manganaro, Milano, Adelphi,
2003, p. 17.
102
Id., Per farla finita col giudizio di dio, testo originale a fronte, trad. it. di M. Dotti, Roma, Stampa Alternativa, 2001,
p. 28.
67
�d’aprene lo francés [...]. Si que non gardaràn solament
103
l’Existéncia, e monacas seràn.
(‘E già son morte tutte le altre lingue. E gli uomini che le
parlano ancora, se vogliono conservare la Vita, è venuta per
loro l’ora di apprendere il francese […]. Altrimenti non
conserveranno che l’Esistenza, e saranno robot.’)
III. 8. La metamorfosi
Il giorno dopo aver conosciuto l’amore, Ambròsi e Joseta – i novelli Adamo
ed Eva chiamati a far rinascere la lingua d’oc e il mondo post-apocalittico de La
Santa Estela del Centenari – si risvegliano in effetti robot (Boudou usa
l’occitano monaca che ha innanzitutto il significato di “bambola”, “marionetta”).
Dunque, «una monaca feme» e «una monaca mascla»104, con rispettivi dettagli
anatomici e sensibilità umana, ma il metallo al posto della pelle.
Era stato il vecchio incontrato a Nîmes a compiere la delicata operazione,
mentre i due dormivano. L’anziano, oltre che un félibre, si rivela essere una
specie di dottor Frankenstein, che aveva trascorso cinque anni in America,
cullando il sogno di «una societat de monacas» che parla occitano.105 Un
ambiziosissimo – diciamo pure un po’ folle – scienziato, creatura figlia del
sarcasmo di Boudou:
Colonizarián la luna, probable, e d’aquí las planetas. Entremièg
106
las estelas se parlariá la lenga d’òc.
(‘[I robot] Colonizzeranno la luna, probabilmente, e di qui i
pianeti. Tra le stelle si parlerà la lingua d’oc.’)
Inutile specificare che sarà un fallimento e il vecchio dovrà cambiare i piani
futuri, riprovando magari con «enfant e filha que saupràn pas encara quitament
parlar».107
Come
ha
giustamente
notato
Catherine
Parayre,
«l’événement
métamorphique se retrouve lié à l’indétermination du langage, théme constant
chez Boudou». Allo stesso modo che in Kafka, le metamorfosi dei personaggi
103
J. BODON, La Santa Estela del Centenari, cit., p. 250.
Ivi, p. 168.
105
Ivi, p. 194.
106
Ivi, p. 198.
107
Ivi, p. 229.
104
68
�boudouniani scaturiscono da una riflessione sulla marginalità: ne sono, in un
certo senso, il risultato fisico.108
Ne Las domaisèlas la metamorfosi non arriva a concretizzarsi – il romanzo
sembra arrestarsi appena prima che l’evirazione giunga a compimento e in
occasione di una misteriosa cerimonia di vestitura109 – e ne L’òme que èri ieu
mancano, tra gli altri, i capitoli centrali, in cui il cambiamento di genere avrebbe
preso luogo.
Oltre a Germana e Clamenç, compaiono in molte scene Eutròpi e un orso,
figure di assai difficile interpretazione. Si può avanzare un’ipotesi sul significato
dell’orso110 quale allegoria dell’istinto virile, sottomesso alla donna (Germana),
in base a questo punto del romanzo (riferito però non al protagonista, ma ad un
personaggio minore, tale Renat diventato «Sòrre Maria-Renada»111, in un
convento femminile, nel 1943):
Tornaràs pas mai ors… As despolhada la bèstia lorda per te
112
vestir de la rauba de la nòvia.
(‘Non tornerai più orso… Ti sei spogliata della sporca bestia
per vestirti dell’abito da sposa [di Dio]’).
Renata: “rinata”, quindi. Germana aveva, qualche pagina innanzi,
paragonato Clamenç-Clamença ad una larva («te siás trigossada coma la baba»,
dice, usando proprio quel verbo da noi studiato nel secondo capitolo), pronta a
rinascere («prèsta per tornar nàisser»).113
III. 9. Sottomissione
Dal gennaio del 2015 ad oggi, complici i fatti di cronaca, Soumission,
l’ultimo libro di Michel Houellebecq, ha visto riconoscersi un successo
108
C. PARAYRE, Jean Boudou, écrivain de langue d’òc, cit., pp. 194-195.
L’ultimo capitolo che ci rimane de Las domaisèlas s’intitola appunto La vestidura.
110
Assai probabile vi sia l’eco di Joan de l’Ors, essere leggendario pirenaico, figlio di una donna e di un orso, che molta
fortuna ha avuto nella tradizione occitana. Si vedano gli articoli: D. FABRE, Recherche sur Jean de l’Ours, in
“Folkore” – Revue d’ethnographie méridionale, Tome XXII, 32e année, n° 2, été 1969; P. GARDY, À la recherche
d’un «héros occitan»? Jean de l’Ours dans la littérature d’oc aux XIXe et XXe siècles, in “Lengas” - Revue de
sociolinguistique, n° 56, 2004-2005, pp. 269-299. (Per saperne di più: http://fr.wikipedia.org/wiki/Jean_de_l%27Ours).
111
J. BODON, Las domaisèlas, cit., p. 166.
112
Ivi. p. 168.
113
Ivi, p. 148.
109
69
�clamoroso. L’opera, in realtà molto furba e molto personale, è stata subito
etichettata come un atto di denuncia contro lo strapotere dell’islam in Francia.
Ad una lettura più attenta, gli strali più feroci sembrerebbero, però, essere
rivolti alla cosiddetta civiltà occidentale, rea, sostanzialmente, di aver smarrito
qualsiasi valore e di essersi abbandonata ad un bieco materialismo nichilista. Un
attacco pseudo-moralista, con accenti spesso misogini, non del tutto riuscito.
Ma ciò che qui interessa è il riferimento all’Histoire d’O, il romanzo erotico
che diede scandalo nel 1954, firmato da Pauline Réage, pseudonimo di
Dominique Aury. Nel libro di Houellebecq un personaggio ad un certo punto
parla dell’idea «sconvolgente e semplice, mai espressa con tanta forza prima di
allora, che il culmine della felicità umana consista nella sottomissione più
assoluta». E aggiunge:
Per me c’è un rapporto tra la sottomissione della donna
all’uomo come la descrive Histoire d’O e la sottomissione
114
dell’uomo a Dio come la contempla l’islam.
Boudou legge il romanzo di Pauline Réage e lo parodia ne Las domaisèlas:
Clamenç viene sottoposto ad un rito dell’anello (una sorta di piercing con catena
viene applicato al suo membro) che rassomiglia parecchio alla pratica cui è
soggetta O.115
Mentre O accetta ogni sopruso perché innamorata, Clamenç soffre
tremendamente quella che, a tutti gli effetti, pare un’atroce tortura. Si noti il
rovesciamento: è l’uomo ad essere sottomesso, non la donna. Gli uomini in
Boudou, come sappiamo, sono dei maschi debilitati e, in quanto tali, fanno
l’amore soprattutto con delle meretrici, anzi «se fan faire l’amor».116
Secondo la psicologa Jole Baldaro Verde e il sessuologo Roberto Todella
La spinta biologica dell’ormai famoso “gene egoista” e il
bisogno di potere sul femminile – che, fin dai tempi più antichi,
ha svolto un ruolo rassicurante – spingono il maschio a
ricercare nell’incontro con la prostituta quel femminile debole
114
M. HOUELLEBECQ, Sottomissione, trad. it. di V. Vega, Milano, Bompiani, 2015, pp. 220-221.
R. LAFONT, Lo mite de la feminitat dins l’òbra romanesca de Bodon, cit., p. 164.
116
Ivi, p. 163.
115
70
�sul quale predominare, sentirsi sicuri e appagare la pulsione
117
sessuale.
Ne La grava sul camin, una polacca di buona famiglia, bella e giovane, è
costretta a prostituirsi, a diventare «la femna de tot lo mond»118 suo malgrado.
Una prostituzione praticata nelle case, non nelle strade, dove miserie di diversa
tipologia si mescolano insieme: l’angoscia della solitudine, la povertà desolante.
Ne Lo libre dels grands jorns la prostituta è addirittura la lingua d’oc, «filha
del castèl que l’an menada al bordèl»119, precipitata dall’amor cortese al
meretricio. Buon pretesto per citare La puta di Marcabru, insaziabile per numero
di amanti: «Mas puèis quand n’a fach son talant / Trò que son mil, no’s presa un
gant»120 (“Ma poi, quando ne ha voglia, / finché son mille non le importa
niente”). Inoltre, all’ieu di questo romanzo viene offerto di fare l’interprete –
dietro compenso, s’intende – per «de cinemà gorrin»121, cioè un ruolo da
pornoattore.
III. 10. L’amore e la Vergine
Come ha scritto Robert Marty, in Boudou le vicende amorose «ne sont que
furtives ou vénales et de toutes façons ne mènent jamais au bonheur».122
Ad esempio, ne La Santa Estela del Centenari, l’uomo e la donna, dopo
l’unione, provano tristezza e vergogna. Il loro amore non dura che una notte,
quella precedente alla metamorfosi in robot. Joseta aspira a redimersi, a farsi
suora, pur di tornare come prima. Il tentativo da parte dell’ieu di liberarla dal
metallo ne provocherà persino la morte (solo apparente, si scoprirà in
conclusione).123
Non sono a lieto fine nemmeno gli amori de Lo libre de Catòia e de La
quimèra. Ne La quimèra Lilon muore in una precipitosa fuga per non farsi
scoprire, per mantenere il segreto del suo rapporto amoroso con il protagonista.
117
J. BALDARO VERDE, R. TODELLA, Gli specchi dell’eros maschile, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2005, p.
110.
118
J. BODON, La grava sul camin, cit., p. 33.
119
Id., Lo libre dels grands jorns, cit., p. 60.
120
Ibidem.
121
Ivi, p. 147.
122
R. MARTY, Terres de l’homme ou le monde poétique de Jean Boudou, cit., p. 9.
123
J. BODON, La Santa Estela del Centenari, cit., pp. 227-228.
71
�In questo stesso romanzo viene elevata a simbolo della passione un’immagine
tratta dalla sestina di Arnaut Daniel Lo ferm voler qu’el cor m’intra, lungamente
rievocata e così riassunta: «l’ongla dins la carn coma una estelha dolorosa».124
Amanç e Fernanda, invece, trascorrono attimi di grande sensualità e
dolcezza insieme, ma la vergogna («la vergonha me prenguèt»125) – scaturita da
una severa educazione religiosa – impedisce al giovane Catoia di vivere
serenamente il sentimento che nutre. Per questo finirà per sfogare la sua passione
tra le braccia di una meretrice (che dice di conoscerlo, di essere «la cosina de
Tolosa»126) e Fernanda si sposerà con un altro.
Ne Las domaisèlas viene chiamato «jardin d’amor»127 quello che in realtà è
un ameno postribolo per turisti con “ninfe” e “naiadi”, in un abbassamento del
topos classico e medievale che porta la prostituzione ad un livello più sofisticato.
Tuttavia, l’archetipo femminile che ossessiona l’opera di Boudou non è solo
quello della Maddalena128, poiché un posto di prim’ordine è occupato dalla
Vergine. Quest’ultima è sempre intesa quale Mater dolorosa, icona che lo
scrittore eredita dal «culte marial en Rouergue».129
La madre di Cristo viene rievocata in contrapposizione alla lussuria, in
quanto unica donna a concepire senza commettere peccato, e Catoia, da fervente
cattolico, crede al dogma dell’Immacolata Concezione. Ma qualcosa lo
imbarazza, lo turba: il seno scoperto della Vergine che allatta il Bambino, che
vede nella raffigurazione di «Nòstra Dòna del Lach».130
La Madonna, vergine e gravida «que unís en ela las doas glorias de la
femna», la donna che nell’Apocalisse (12, 1-2) appare vestita di sole, con la luna
sotto i piedi e sul capo una corona di dodici stelle («la femna mantelada de
solelh, amb la luna jols pès e sus son cap una corona de dotze estelas»).131
124
Id., La quimèra, cit., p. 127.
Id., Lo libre de Catòia, cit., p. 250.
126
Ivi, p. 254.
127
Id., Las domaisèlas, cit., p. 53.
128
Si veda la poesia intitolata La Maria-Magdalena, in Id., Poèmas, cit., p. 103.
129
J. GINESTET, Jean Boudou, la force d’aimer, cit., p. 52.
130
J. BODON, Lo libre de Catòia, cit., p. 241.
131
Id., La quimèra, cit., p. 162. Come giudicare citazioni e riferimenti simili? Boudou ha, ad esempio, scritto anche una
sorta di parodia dell’Ave Maria: la poesia Nòstra Dòna dels Autocarris (“Nostra Signora degli Autobus”), in Id.,
Poèmas, cit., p. 73.
125
72
�IV. LA VIOLENZA E IL SACRO
Ciò che è stato sarà
e ciò che si è fatto si rifarà;
non c’è niente di nuovo sotto il sole.1
ECCLESIASTE, 1, 9.
IV. 1. La violenza, la guerra
In un saggio dedicato all’interpretazione dei Contes del meu ostal di
Boudou, Bernard Vernières, insegnante di occitano, suggerisce di prendere in
esame «les diverses formes de violence que tous ces contes mettent en œuvre» e
si chiede in che misura questa violenza sia «le reflet de la violence historique, ou
institutionnelle, de la violence étatale sur tout un peuple qui en reste marqué dans
sa chair».2
In una nota a testo Vernières invita altresì a rileggere il corpus boudouniano
«à la lumière des analyses de René Girard sur “le mécanisme victimaire”».3
L’antropologo francese recentemente scomparso ha dedicato al tema due tra i
suoi scritti più celebri: La violenza e il sacro – da cui attingiamo il titolo di
questo capitolo – e Il capro espiatorio.
Scrive Girard che è la violenza a costituire «il vero cuore e l’anima segreta
del sacro»4 e che
È l’intera comunità che il sacrificio protegge dalla sua stessa
violenza, è l’intera comunità che esso volge verso vittime a lei
esterne. Il sacrificio polarizza sulla vittima i germi di dissenso
sparsi ovunque e li dissipa proponendo loro un parziale
5
appagamento.
1
Per tutte le citazioni dalla Bibbia di questo capitolo la fonte è: http://www.laparola.net.
B. VERNIÈRES, Le dit de l’oiseau gris. Interprétation des Contes del meu ostal de Jean Boudou, Puylaurens, IEO,
2001, pp. 115-116.
3
Ibidem, nota 65.
4
R. GIRARD, La violenza e il sacro, trad. it., di O. Fatica e di E. Czerkl, Milano, Adelphi, 1997, p. 53.
5
Ivi, p. 22.
2
73
�In altre parole, è la società stessa a rivendicare un “capro espiatorio” su cui
scaricare le proprie ansie, i propri istinti cruenti. Istinti cruenti che nel sangue
trovano espressione, sostanza che al contempo rende impuri e purifica, spinge gli
uomini al furore e alla morte, oppure li placa e li fa rivivere.6
La violenza in Boudou è legata sia alla persona, all’uomo, che alla
comunità, alla storia. Al centro della riflessione boudouniana v’è la distruzione
dell’identità occitana, «implacable sort jeté à un peuple, sort subi de plus en plus
lucidement, jamais accepté».7
I personaggi boudouniani, infatti, il più delle volte subiscono la violenza ed
è così anche con la guerra. Come nel caso di Catoia, che al fronte passerà otto
anni della sua vita, anni che non sentirà suoi («uèch ans que son pas meus»).8 O
come l’ieu de La quimèra, costretto a farsi monaco per evitare di arruolarsi: non
ha altra scelta, tertium non datur («dins ta condicion as pas gaire la causida»).9
E pensare che l’occitano – «la sola lenga de la tèrra que s’unifiquèt, non
pas per guèrra, mas per poder cantar l’amor»10 – proprio in un confronto armato
aveva conosciuto l’origine dei suoi mali: la crociata albigese. Ma la prima
crociata – quella contro i Turchi, a fine XI secolo – era partita dall’Occitania,
indetta da papa Urbano II a Clermont Ferrand, e aveva come suo capo più
prestigioso Raimondo di Saint Gilles, conte di Tolosa.11
Poco più di cent’anni dopo l’appello di Clermont, la crociata si sarebbe
rivoltata contro Raimondo VI di Tolosa, il pronipote di Raimondo di Saint Gilles:
«crotz contra crotz».12
Èra la crosada alara tanben, una autra crosada: contra los
darrièrs dels Ramons que devián i pèrdre la lor tèrra, nòstra
13
tèrra, e lor arma, la nòstra.
(‘Era anche allora la crociata, un’altra crociata: contro gli ultimi
dei Raimondi [gli ultimi conti di Tolosa], che dovevano
perderci la loro terra, nostra terra, e la loro anima, la nostra.’).
6
Ivi, p. 60.
J-D. SOUYRIS, La violence dans l’œuvre de Jean Boudou, in J. Boudou (1920-1975), Actes du Colloque de Naucelle
(27, 28 et 29 septembre 1985), cit., p. 204.
8
J. BODON, Lo libre de Catòia, cit., p. 259.
9
Id., La quimèra, cit., p. 55.
10
Id., La Santa Estela del Centenari, cit., p. 199.
11
http://www.treccani.it/enciclopedia/crociata_(Dizionario-di-Storia)/.
12
J. BODON, Lo libre dels grands jorns, cit., p. 47.
13
Ivi, pp. 46-47.
7
74
�Scriverà Boudou, a proposito di questa crociata, che, sebbene almeno
all’inizio potesse sembrare una guerra agli eretici, «il s’agissait finalement
d’annexer un nouveau territoire à la monarchie capétienne et de coloniser ce
territoire».14 Al netto degli orpelli, fu, insomma, colonizzazione: né più, né meno.
Con la poesia intitolata Montpelhièr, scritta in Algeria nel 1970, Boudou
attaccò la retorica nascosta dietro ogni «arc de triomf de guèrra», come quello
presente a Montpellier, in cui l’iscrizione inneggia alla gloria di Luigi XIV «sus
la mar e sus la tèrra».15
Il riferimento all’Arco di Trionfo di Montpellier torna nelle Entresenhas
(“informazioni”) che lo scrittore allega in appendice a La quimèra, il romanzo
che ha al centro la rivolta dei camisards contro Luigi XIV:
L’Arc de Triomf nos fa sovenir. Sèm estats batuts sus la mar e
16
sus la tèrra: la mar de las galèras, la tèrra de las càrcers.
(‘L’Arco di Trionfo ce lo fa ricordare. Siamo stati battuti sul
mare e sulla terra: il mare delle galere, la terra delle carceri.’).
Quella dei camisards – ugonotti della catena montuosa delle Cevenne – fu
una vera e propria guerra civile in nome della libertà di culto (negata dall’editto
di Fontainebleau del 1685), una guerra che coprì tutto il primo decennio del
Settecento.17
Il casus belli fu l’assassinio per mano ugonotta dell’abate di Chayla, nonché
odiatissimo ispettore delle missioni cattoliche: «es mòrta la bèstia! La bèstia
negra de Cevenas!».18 In un botta e risposta dall’efferatezza crescente, gli
«ausards»19, i “temerari” calvinisti, si macchiarono di crimini non minori rispetto
alla controparte monarchica e cattolica.
Da un lato, il camisard Gédéon Laporte e i suoi uomini vennero massacrati
dal capitano Poul e dalla cavalleria reale, le loro teste mozzate e i loro cadaveri
esposti alla mercé dei cani.20 D’altro canto, il capitano Vidal, catturato dagli
14
Id., Les croyances des cathares, in «Bulletin I.E.O. de l’Aveyron», n° 7, printemps 1966, ora in Joan Bodon:
documents, cit., p. 80.
15
In Id., Poèmas, cit., p. 105.
16
Id., La quimèra, cit., pp. 466-467.
17
http://www.treccani.it/enciclopedia/camisardi/.
18
J. BODON, La quimèra, cit., p. 295.
19
Ivi, p. 267.
20
Ivi, p. 335.
75
�ugonotti, rifiutò di convertirsi e venne ucciso dopo esser stato barbaramente
mutilato (gli furono tagliati il naso e le orecchie).21
L’azione dei calvinisti francesi è però lasciata sullo sfondo nel romanzo di
Boudou: “la chimera” non è quella dei camisards, ma è il piano del cattolico
Antoine Guiscard, abate e marchese realmente esistito. Lo storico Henri Martin
gli dedicò queste parole nella sua monumentale Histoire de France:
Un cadet de haute noblesse, l’abbé de la Bourlie, esprit violent,
audacieux et intrigant, avait projeté de soulever le Rouergue,
son pays natal, non plus au nom de la liberté religieuse, mais au
nom de l’abolition des impôts; il s’était mis en rapport avec le
grand chef des Camisards, avec Roland, et prétendait unir dans
22
une même prise d’armes, catholiques et protestants.
IV. 2. Pessimismo e disfatte
Boudou teneva molto a La quimèra, la considerava la sua opera più
importante, come confessò all’amico Mouly in una lettera del 30 dicembre 1970,
voleva che fosse il libro della sua vita.23 Rémi Soulié ha accostato il romanzo a Il
Gattopardo24,
il
capolavoro
di
Tomasi
di
Lampedusa
sulla
Sicilia
«irredimibile».25
Tuttavia, è bene ricordare la lontananza sociale e politica che separa lo
scrittore rouergate da quello siciliano: mentre Boudou era un modesto insegnante
dalle idee di sinistra, Tomasi di Lampedusa apparteneva ad una famiglia
aristocratica. Il cosiddetto “gattopardismo” parte perciò da presupposti molto
diversi, e cioè da un punto di vista dichiaratamente conservatore.26
Certo, Boudou è uno scettico, e tale rimane sempre. In questo, nel suo
aperto rifiuto di una qualsiasi «vision idyllique de la société de demain»27, si può
dire che l’accostamento con il forte pessimismo del nobile palermitano abbia
senso.
21
Ivi, p. 340.
H. MARTIN, Histoire de France depuis le temps les plus reculés jusqu’en 1789, Paris, Furne, 1855-1860, t. XIV, pp.
417-418 (disponibile su gallica.bnf.fr).
23
Letras de Joan Bodon a Enric Mouly, cit., p. 269.
24
R. SOULIÉ, Les chimères de Jean Boudou, cit., pp. 32-33.
25
G. TOMASI DI LAMPEDUSA, Il Gattopardo, Milano, Feltrinelli, 1997, p. 168.
26
http://www.treccani.it/vocabolario/gattopardismo/.
27
B. GUIBERT, Jean Boudou, visionnaire et humaniste, Rodez, Grelh Roergàs, 2005, p. 67.
22
76
�L’utopia di Antoine Guiscard – anch’egli un aristocratico, giusto ricordarlo
– svanisce miseramente a causa delle divisioni presenti tra i rivoltosi, non per
colpa del destino cinico e baro o della presunta amoralità dei meridionali.
Nella postfazione che abbiamo già ricordato, Boudou si chiede e chiede al
lettore: «mas perqué totjorn en Occitània nos getam los unes contra los autres:
ases contra nècis?».28 Ma perché, dice, in Occitania ci scagliamo sempre gli uni
contro gli altri, come asini contro idioti? Il piano dell’abate della Bourlie sfuma
anche per l’eccessiva superbia dei più importanti comandanti dei camisards,
quali Jean Cavalier e Pierre Laporte (il “Roland” citato da Martin).29
È con il personaggio di frate Casimiro che la questione trova spazio nel
libro. Il «polhaire» (spregiativo per “polacco”) inveisce contro gli altri frati, tutti
francesi del Midi, chiamandoli «capons» (letteralmente, “capponi”).30 Egli era
stato al seguito del duca di Montmorency, Enrico II, governatore della
Linguadoca, che nel 1632 guidò la rivolta secessionista dei nobili locali contro il
re di Francia, rivolta conclusasi con una sonora sconfitta.31
Per una vila que se solevèt, quantas boleguèron pas, esperant de
nos venir ajudar se ganhàvem e de nos assucar encara mai se
perdiàm! Veniàm desliurar un pòble que se voliá pas desliurar
el meteis... Raça de capons! Mens que de capons encara, totes
32
d’afemelits, de viracuols!
(‘Per una città che si sollevò, quante non si mossero, sperando
di venirci ad aiutare se vincevamo e di picchiarci ancor di più se
perdevamo! Venivamo a liberare un popolo che esso stesso non
voleva liberarsi… Razza di capponi! Meno ancora che capponi,
tutti degli effeminati, dei paraculi!’)
Come, dunque, far capire a «los mesquins», ai ceti più bassi, la bontà delle
ragioni rivoluzionarie? La risposta la si può leggere in un’altra pagina del
romanzo: «çò que comprenon los paures son las talhas e las boadas» (“ciò che
comprendono i poveri sono le imposte e le corvée”), e quindi «contra las talhas e
las boadas cal cridar» (“contro le imposte e le corvée bisogna gridare”).33
28
J. BODON, La quimèra, cit., p. 466.
Ivi, p. 458.
30
Ivi, p. 70 e ss.
31
http://it.wikipedia.org/wiki/Enrico_II_di_Montmorency.
32
J. BODON, La quimèra, cit., p. 73.
33
Ivi, p. 236.
29
77
�Nel giugno del 1643 più di diecimila contadini del Rouergue, guidati dal
chirurgo Jean Petit e dal locandiere Guillaume Bras, erano insorti proprio contro
le imposte.34 Nell’ottobre dello stesso anno quella jacquerie des croquants fu
sedata e i capi responsabili furono arsi vivi: troppo grande il divario tra i potenti
mezzi reali e le scarse risorse dei rivoltosi.35
IV. 3. Difendere un’idea
«Mal o ben, en escrivent òm defend totjorn una idèa»36: “bene o male,
scrivendo si difende sempre un’idea”, confidò Boudou a Mouly in una lettera del
1948. Ma quali sono, precisamente, le idee politiche che ispirarono lo scrittore?
Si è detto che «il est plus proche d’une conception anarchisante que
communisante» e che in generale «il est difficile de le concevoir fidèle à une
doctrine fixée, établie en dehors de lui».37
In un’altra lettera a Mouly, sempre del 1948, Boudou dichiara «soi pas un
nazi, soi pas un comunista» e dice che alla Liberazione per qualche tempo ebbe
fiducia nell’Armata Rossa, ma quello che i soldati di Stalin facevano ai libertari
spagnoli nel gulag di Karaganda (oggi in Kazakistan) lo aveva fatto ricredere.38
Nello stesso anno il rouergate aveva iniziato Los dròlles se ‘n van en Russia
(«dròlles» sono i “ragazzi”), la traduzione occitana di un romance del poeta
anarchico spagnolo Gregorio Oliván García.39
Ovviamente, lo scrittore non poteva ritenersi un conservatore, come rivelò a
Lafont nel 1955: «te cal pas creire que soi cuol-blanc o quicom d’aquel biais»40
(“non devi credere che io sia un [letteralmente: culo-bianco] reazionario o
qualcosa di quel tipo”). Così si sarebbe tentati di vederci della satira in quella
«Pregària pel General de Gaulle»41 de La Santa Estela del Centenari, libro che fu
dato alle stampe nel 1960, pochi mesi dopo che il padre del “gollismo”
34
Ivi, p. 77.
http://fr.wikipedia.org/wiki/Jacquerie_des_croquants.
36
Lettera del 29-2-1948, in Letras de Joan Bodon a Enric Mouly, cit., p. 105.
37
R. COUDERC, Sur Jean Boudou syndicaliste, in J. Boudou (1920-1975), Actes du Colloque de Naucelle (27, 28 et
29 septembre 1985), cit., p. 32.
38
Lettera del 28-10-1948, in Letras de Joan Bodon a Enric Mouly, cit. p. 112.
39
Poesia incompiuta, in J. BODON, Poèmas, cit., p. 277.
40
Lettera del 5-5-1955. La corrispondenza Boudou - Lafont è conservata manoscritta nel Fondo Lafont degli Archivi
del Cirdòc di Béziers. Su occitanica.eu è disponibile e scaricabile l’edizione critica a cura di M. Pedussaud.
41
J. BODON, La Santa Estela del Centenari, cit., p. 244.
35
78
�diventasse Presidente della Repubblica (la “Quinta” e semi-presidenziale che
dura tuttora).42
Sappiamo che Boudou redigeva una cronaca all’interno di un mensile del
Parti Communiste Français, senza tuttavia mai aderire formalmente al partito di
Thorez.43 Nei Contes dels Balssàs, ad un certo punto, compare l’albigese Jean
Jaurès, socialista celebre per il suo pacifismo, presentato come un politico molto
ottimista, che parla di fine della barbarie, di un brillante «temps novèl» e di una
prossima «ciutat de l’òme». L’entusiasmo di Jaurès viene però smorzato così da
uno stregone: «ieu lo vesi pas clar lo temps novèl», “io non la vedo chiara la
nuova epoca”.44
C’è spazio per irridere anche Marx. Il castello dove l’ieu de Lo libre dels
grands jorns presta le sue mansioni pornografiche si trova in una località dal
nome programmatico di «Marxilhat», inequivocabile riferimento al teorico del
comunismo perché la scritta è accompagnata da falce e martello.45 Boudou
sembra chiedersi, con Simone Weil, come il pensatore tedesco «abbia mai potuto
credere che la schiavitù potesse formare uomini liberi».46
Scrive Joëlle Ginestet che il periodo che va dal 1960 al 1975 ha segnato
profondamente gli scrittori occitani.47 Sono anni di intensi cambiamenti politici e
sociali e di grandi innovazioni tecnologiche. Ma sono esattamente anche gli
ultimi quindici anni di vita di Boudou, nonché quelli in cui è concentrata quasi
tutta la sua produzione letteraria.
Nel 1971 il Ministero della Difesa francese ebbe intenzione di ingrandire
l’estensione del campo militare presente sull’altopiano calcareo del Larzac,
nell’Aveyron, ai danni dei contadini le cui terre erano minacciate di
espropriazione. Grazie ad un decennio di disobbedienza civile e di lotta non
violenta, la protesta – diventata nel frattempo fonte d’ispirazione dei movimenti
42
https://it.wikipedia.org/wiki/Charles_de_Gaulle.
Y. ROUQUETTE, Jean Boudou: ni poète, ni paysan?, in R. SOULIÉ (sous la direction de), Jean Boudou,
«Littérature en Lagast», Cahier n° 4, cit., p. 78.
44
J. BODON, Contes dels Balssàs, cit., pp. 158-159.
45
Id., Lo libre dels grands jorns, cit., p. 142.
46
S. WEIL, Pagine scelte, a c. di G. Gaeta, Genova, Marietti, 2009, p. 94.
47
J. GINESTET, Jean Boudou, la force d’aimer, cit., p. 123.
43
79
�alter-mondisti e pacifisti di Francia – diede i suoi frutti e il progetto venne
arrestato.48
Alla protesta prese parte pure Boudou. Nella raccolta postuma Poèmas,
completa di tutte le poesie boudouniane, figura anche Larzac, una traduzione in
occitano di un componimento in francese di Pierre Loubière dedicato a quei
fatti.49
IV. 4. Storia e progresso
La Santa Estela del Centenari nasce invece in un contesto che è quello
degli anni ’50, gli anni più difficili della guerra fredda, con la corsa agli
armamenti e la minaccia di uno scontro nucleare dagli effetti sicuramente
devastanti: il ricordo ancora fresco della bomba sganciata su Hiroshima
alimentava il terrore di una fine del mondo ormai prossima.50
Nel romanzo l’Armageddon è annunciato, non a caso, da due testimoni di
Geova, «carbonièrs de La Sala»51, cioè minatori di Decazeville, nell’Aveyron.
Questi stessi minatori li ritroviamo in una poesia omonima della silloge Res non
val l’electrochòc, in cui col pugno alzato cantano L’Internazionale, ora «cançon
del desesper», ora canzone della speranza.52
I testimoni di Geova, com’è noto, ritengono che «lo Crist Jèsus, lo filh de
Jehovah» sia tornato sulla terra dal 1914, data che secondo essi sancì «lo
començament de las dolors»53 e che in effetti porta alla memoria uno degli eventi
più sconvolgenti della storia contemporanea: lo scoppio della prima guerra
mondiale.
La storia, osserva il protagonista e narratore de Lo libre dels grands jorns,
ognuno la rigira e la interpreta a proprio piacimento. E allora su chi o su che cosa
fare affidamento? Allora quale «istòria legir quand se legís l’istòria?»
48
http://fr.wikipedia.org/wiki/Lutte_du_Larzac. Del 2011 il film di Christain Rouaud, Tous au Larzac, vincitore del
Premio César 2012 per il miglior documentario.
49
In J. BODON, Poèmas, cit., p. 291.
50
Id., La Santa Estela del Centenari, cit., p. 188.
51
Ivi, p. 55.
52
Id., Los carbonièrs de La Sala, in Id., Poèmas, cit., p. 37.
53
Id., La Santa Estela del Centenari, cit., p. 44 e p. 46.
80
�Molons de libres, fum de las teorias. Cristòl Colomb o Joana
d’Arc. Lo catòrze de julh presa de la Bastilha. Pèire Laval e los
54
alemands… Ni mai ni mens qu’un conte, l’istòria [...].
(‘Mucchi di libri, un sacco di teorie. Cristoforo Colombo o
Giovanna d’Arco. Il 14 luglio la presa della Bastiglia. Pierre
Laval e i tedeschi… Né più né meno che un racconto, la storia
[…].’)
Una storia, insomma, considerata infida impostura piuttosto che magistra
vitae. Ne Lo libre de Catòia la famiglia del protagonista è una famiglia – diciamo
così – fortemente, orgogliosamente, antistorica. Infatti, i Catoia appartengono
alla Petite Église del Rouergue, che aveva a Villecomtal (sempre nell’Aveyron)
la sua “piccola Roma” e che rifiutava il Concordato del 1801. I membri – degli
scismatici a tutti gli effetti, l’ultimo dei quali morì nel 1931 – venivano
soprannominati les enfarinés, perché, seguendo una moda dell’ancien régime, si
cospargevano di farina i lunghi capelli.55
Il rifiuto della storia non è solo formale, ma sostanziale: i Catoia vivono
nell’unica casa del villaggio senza elettricità, con ancora candele e lampade a
petrolio.56 Il nonno è il vero pater familias e fa persino da censore: dà alle
fiamme tutte le pagine sulla Rivoluzione francese del manuale di storia del
nipote.57 Il motivo è evidente: il grande nemico, Napoleone, era sorto da quelle
ceneri sovversive, e la nuova Chiesa, la «sembla-glèisa» (“la pseudo-chiesa”), era
nata «sus las roinas de la glèisa gallicana».58
Una famiglia, una casa, per scelta fuori dalla dimensione temporale:
Al nòstre ostal lo temps càmbia pas. Lo relòtge, aicí, totjorn
59
pica l’ora vièlha.
(‘A casa nostra il tempo non cambia. L’orologio, qui, segna
sempre l’ora vecchia.’)
Invano si oppone a questa stasi assoluta la madre dell’ieu, nuora
dell’anziano, che vorrebbe portare il figlio dai suoi genitori, che abitano nel
dipartimento di Albi, in condizioni completamente diverse. L’Albigeois sta al
54
Id., Lo libre dels grands jorns, cit., pp. 130-131.
http://www.villecomtal.fr/histoire/les-enfarines/.
56
J. BODON, Lo libre de Catòia, cit., p. 19.
57
Ivi, p. 39.
58
Ivi, p. 49.
59
Ivi, p. 44.
55
81
�“nuovo” come il Rouergue sta al “vecchio”: il progresso che avanza e la
tradizione che rincula.
Così la tecnologia può essere un nemico: «l’òme crei menar la maquina,
que la maquina lo trigòssa el»60 (“l’uomo crede di guidare la macchina, ma è la
macchina che trascina lui”). Così la scienza può essere spaventosa, come lo è ne
Lo libre dels grands jorns, con quel dottor Spallanzani che alleva delle teste
umane e ripropone il mito platonico della caverna in versione macabra (e
pornografica: perché le teste guardano dietro una sorta di tenda le performances a
cui si era già accennato).61
Ma la caricatura più sferzante delle «magnifiche sorti e progressive»62 – per
dirla con Leopardi – Boudou forse la offre ne Las domaisèlas. Dopo la seconda
guerra mondiale, «amb lo progrès», scrive, bisognò modernizzarsi e il problema
fu allora dove trovare «l’argent», come ribaltare la «non-competitivitat» e la
«non-adaptativitat».63
Il gravoso compito fu delegato alle banche, anzi all’unica grande banca che
deteneva il monopolio, «lo Crèdit Central, General e Social». Questo
potentissimo istituto si trovò presto padrone delle case di tutti gli anziani (che nel
frattempo erano stati trasferiti «a l’ospici o a la maison de retira») e trasformò tali
abitazioni in alloggi per turisti.64 E per i più tradizionalisti? Per loro si ritenne
necessario mantenere il pellegrinaggio della «Verge Negra»: fu quindi stabilito il
trasferimento della statua, della cappella e addirittura del cespuglio di Natale,
«non pas per la devocion mas pel torisme».65
IV. 5. Fuori dalla Chiesa di Roma
Anche in materia religiosa Boudou «n’était pas un homme aux dévotions
sans conditions».66 Lo scrittore sparge di frequente nelle sue opere dei riferimenti
più o meno espliciti alla religione, e non solo a quella cattolica. Tali allusioni o
60
Ivi, p. 170.
Id., Lo libre dels grands jorns, cit., p. 180 e ss. Il nome non è casuale: Lazzaro Spallanzani è considerato il padre
scientifico della fecondazione artificiale (ed è esplicitamente ricordato a p. 181).
62
G. LEOPARDI, La ginestra, in Id., Canti, a c. di U. Dotti, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 448.
63
J. BODON., Las domaisèlas, cit., p. 34 e ss.
64
Ivi, pp. 37-38.
65
Ivi, pp. 48-49.
66
J. GINESTET, Jean Boudou, la force d’aimer, cit., p. 45.
61
82
�citazioni sono sempre simboliche e sono (o devono essere) accostate alla
questione occitana.
Così – confidava a Henri Mouly – l’“infarinato” Catoia, educato all’interno
di un sentire religioso che nessuno sembra condividere, può benissimo essere «un
felibre o un occitanista», giacché «la Paraula de Dieu es tanben lo Vèrb d’Òc».67
Così può nascere una battaglia tra due movimenti ritenuti molto simili,
entrambi in qualche modo “settari”, come quelli dei testimoni di Geova e dei
félibres, che ne La Santa Estela del Centenari celebrano la grande ricorrenza – il
primo centenario dalla fondazione – con una messa in provenzale (ci si trova ad
Avignone) e il Rodano associato al fiume Giordano.68
Così ne Lo libre dels grands jorns le vicissitudini storiche degli ebrei
possono essere paradigmatiche, con l’ebraico che rinasce grazie a Eliezer Ben
Yehuda, dal narratore definito un «fat», un “folle”, per l’impensabile impresa che
riuscì a portare a termine. E quindi l’ieu auspica che l’Occitania possa trovare un
simile ardito: «la lenga d’òc espèra totjorn lo seu fat».69
In questo discorso s’innesta pure – l’occitanissima – eresia catara, caricata
di sfumature che Boudou doveva sentire molto personali. Come il rouergate
scrisse nel 1966, «le système cathare était basé sur le principe du dualisme, c’està-dire des oppositions et des antithèses»70 . E quale antitesi il catarismo poteva
innanzitutto suggerirgli, se non quella tra il francese e l’occitano?
Alla stregua di Platone, «les cathares concevaient un monde à plusieurs
plans»: il mondo transitorio della materia e quello eterno dello spirito.71 Le
reminiscenze platoniche trovano forma nella versione tecnologica del mito della
caverna ne Lo libre dels grands jorns:
Una television davant mon arma. Arma o pas arma, mon cervèl.
Images, solament images: cambra sarrada del meu cap… Platon
lo vielh dins sa caforna agachava virar las ombras. Un cinemà
72
de mai o de mens. Lo meu cinemà es lo sol par ieu.
(‘Una televisione davanti alla mia anima. Anima o non anima, il
mio cervello. Immagini, solamente immagini: camera oscura
67
Lettera del 20-6-1964. In Letras de Joan Bodon a Enric Mouly, cit., p. 204.
J. BODON, La Santa Estela del Centenari, cit., p. 122.
69
Id., Lo libre dels grands jorns, cit., p. 74. Cfr.: http://it.wikipedia.org/wiki/Eliezer_Ben_Yehuda.
70
Id., Les croyances des cathares, cit., p. 68.
71
Ivi, p. 73.
72
Id., Lo libre dels grands jorns, cit., p. 132.
68
83
�della mia testa… Il vecchio Platone nella sua caverna osservava
passare delle ombre. Più o meno un cinema. Il mio cinema è per
me l’unico [che esiste].’)
Un platonismo che pare influenzato da Il mondo come volontà e
rappresentazione di Schopenhauer: «de qu’existís en fòra de tu?»73 (“che cosa
esiste al di fuori di te?”); «las causas son coma las creses»74 (“le cose sono come
le credi”); «aquel mond sensible que nos plega puslèu que sembla nos plegar aquí
que cresèm viure es una regardèla qu’existís solament dins nòstre sicap»75 (“quel
mondo sensibile che ci avvolge o meglio che qui sembra avvolgerci [e] che
crediamo di vivere è un’illusione che esiste solamente nella nostra mente”).
Oltre agli echi di Platone (o, ancor di più, del neoplatonismo), a Boudou
non dovevano certo sfuggire nel catarismo le somiglianze con lo gnosticismo e il
manicheismo. A tale riflessione lo scrittore rouergate poteva giungere anche
grazie alla lettura dei testi sull’esoterismo di Déodat Roché e di Denis Saurat.76
Non «un dieu», ma «dos dieus», dunque: per raggiungere il bene bisogna
conoscere il male e per arrivare allo spirito occorre passare dalla materia. Come
nel taoismo esiste lo Yin ed esiste lo Yang, in quello v’è una parte di questo, e
viceversa: «tota causa en ela pòrta son contrari, e cada causa se càmbia en son
contrari e demòra ela en son contrari».77
Ne La quimèra il dualismo tra materia e spirito è sentito molto, come nello
scontro dialettico tra i frati Giovanni e Battista, che danno più importanza
rispettivamente al «còs esperital» (“corpo spirituale”) e al «còs animal» (“corpo
animale”).78 Oppure nella contrapposizione tra il mondo terreno – quello in cui
non esiste una patria occitana e che è in mano al principio maligno – e il mondo
ideale, di Dio e della “chimera”:
Nòstre païs prendrà pas jamai forma sus aquesta tèrra; dins
l’esperit sol es lo seu contorn… Nòstre païs aperten a Dieu…
79
Mas dins aqueste mond tot es a l’Enemic.
73
Ivi, p. 108.
Ivi, p. 109.
75
Ivi, p. 118.
76
Y. ROUQUETTE, Jean Boudou: ni poète, ni paysan?, cit., p. 78.
77
J. BODON, La Santa Estela del Centenari, cit., pp. 211-212.
78
Id., La quimèra, cit., p. 156.
79
Ivi, p. 79.
74
84
�(‘Il nostro Paese non prenderà mai forma su questa terra; solo
nello spirito è il suo contorno… Il nostro Paese appartiene a
Dio… Ma in questo mondo tutto è del Nemico.’)
L’esoterismo e il rifiuto della materia: poteva mancare l’alchimia? Quasi
naturale, a questo punto, la sua presenza nel romanzo più complesso e lungo di
Boudou, impersonata da frate Alòi, il fabbro che parla all’ieu dell’«Obra
Grand»80 e della Pietra filosofale. Ma l’Opera Grande di cui tanto si fantastica
non è quella alchemica, o non lo è soltanto: è soprattutto il tentativo, disperato,
«de tornar la libertat a la nòstra Patria».81
IV. 6. L’Antico Testamento
L’opera di Boudou è costellata di citazioni e riferimenti alla Bibbia, sia
all’Antico che al Nuovo Testamento. Certi titoli sono, tra l’altro, chiare allusioni
bibliche, quali Lo libre dels grands jorns o Lo libre de Catòia, per non parlare
dell’incompiuto Evangèli de Bertomieu. L’uso rientra nello stesso intento di cui
si è appena discusso: innalzare la questione occitana a metafora universale.
Il Libro della Genesi viene riecheggiato e parodiato ne La Santa Estela del
Centenari, con Ambròsi e Joseta, nei panni di Adamo ed Eva di una colonia di
robot. L’Eden, «l’òrt del paradis», diventa la valle del Lot (in occitano “Òlt”, e a
Saint-Laurent-d’Olt lo scrittore visse a lungo); il frutto proibito – nel testo sacro
non meglio specificato, anche se l’iconografia dal Medioevo in poi tende ad
identificarlo con la mela, in latino malum – è qui la «majofa», la fragola.82
La coppia, dopo aver assaggiato qualche fragola, si bacia e viene sorpresa
da una «sèrp». Un verso virgiliano (Egloghe, III, vv. 92-93) descrive una
situazione piuttosto simile, con dei giovani, le fragole e il serpente: «qui legitis
flores et humi nascentia fraga, / frigidus, o pueri, fugite hinc, latet anguis in
herba».83 In Virgilio è «frigidus» il serpente, mentre in Boudou vien detto freddo
(«freg») il bacio («poton»).84
80
Ivi, p. 89.
Ivi, p. 224.
82
Id., La Santa Estela del Centenari, cit., p. 164. L’òrt d’Eden è anche il titolo di una poesia di Boudou: in Id., Poèmas,
cit., p. 63.
83
www.hs-augsburg.de/~harsch/Chronologia/Lsante01/Vergilius/ver_ec03.html (Bibliotheca Augustana).
84
J. BODON, La Santa Estela del Centenari, cit, p. 164.
81
85
�Come Adamo ed Eva – prima di mangiare il frutto proibito dell’albero della
conoscenza – erano nudi «ma non ne provavano vergogna» (Genesi, 2, 25), così
il senso del peccato, la coscienza del male, compare in Ambròsi e Joseta soltanto
dopo aver assaggiato le fragole («ara sèm d’armas perdudas», “ora siamo delle
anime perdute”).85 Il serpente tornerà anche ne Lo libre de Catòia, ancora
associato alla nudità e alla vergogna (e ad una donna, Fernanda):
Coma se la sèrp me fissava. Me coneguèri nus. Òc, que la mia
86
pèl èra blanca… La vergonha me prenguèt…
(‘Come se la serpe mi fissava. Mi conobbi nudo. Sì, che la mia
pelle era bianca… La vergogna mi prese…’)
Questo romanzo contiene un riferimento al Decalogo, a quello che secondo
la tradizione cattolica è il quarto comandamento («onora tuo padre e tua madre
[…] perché la tua vita sia lunga […]»: Deuteronomio, 5, 16). È una variante
ridotta, nelle parole del nonno al padre del protagonista: «onora lo teu paire se
vòls venir vièlh».87 Nei Contes dels Balssàs c’è invece la versione più fedele: «lo
que vòl viure longament cal que respècte sos parents».88
Ne La quimèra i camisards preparano gli assalti ai nemici al canto dei
Salmi biblici, ispirati dai loro capi eretti a profeti. In particolare, il Salmo 67 –
qui e di seguito secondo la numerazione greca – era il loro inno di battaglia,
messo in versi francesi (Que Dieu se montre seulement) da Clément Marot.89 Poi
figurano il Salmo 23, quello di Dio come Buon Pastore90; il 113, sulla fuga
d’Israele dall’Egitto91; il 136 contro l’oppressore92; ecc.
Giobbe – che Blaise Pascal definì «le plus maleureux»93 e il cui libro
Simone Weil indicò quale modello più autentico della sventura94 – costituisce la
figura dell’Antico Testamento più cara a Boudou. E francamente la cosa non
stupisce, visto quanto si è detto finora.
85
Ivi, p. 170.
Id., Lo libre de Catòia, cit., p. 250.
87
Ivi, p. 94.
88
Id., Contes dels Balssàs, cit., p. 12.
89
Id., La quimèra, cit., p. 267. Cfr. http://fr.wikipedia.org/wiki/Psaume_68_(67).
90
Ivi, p. 410.
91
Ivi, p. 171.
92
Ivi, p. 441.
93
B. PASCAL, Pensieri, ed. it. con testo fr. a fronte, a c. di C. Carena, Torino, Einaudi, 2004, p. 14, n° 22.
94
S. WEIL, Attesa di Dio, ed. it. a c. di M. C. Sala, Milano, Adelphi, 2013, pp. 173-174.
86
86
�Giobbe è l’incarnazione della pazienza, l’uomo che tutto e di tutto sopporta
per antonomasia; è il giusto che soffre ingiustamente e la cui fede è
costantemente messa alla prova. Lo troviamo ne La quimèra («aquel sant òme
del Tèstament Vièlh»95) e Lo sant òme Job s’intitola il ventiquattresimo capitolo
de Lo libre de Catòia.96
IV. 7. Il Nuovo Testamento
Giobbe è pure la rappresentazione della volontà di Dio, cui il credente deve
affidarsi, o meglio, abbandonarsi. Come fa Jaumeta Moran, la predicatrice de Lo
libre de Catòia: «Mon Dieu, que vòstra volontat se compliga, non pas la mia».97
La supplica ricorda Giovanni, 5, 30: «[…] Non cerco la mia volontà, ma la
volontà di colui che mi ha mandato». Anche l’immagine del calice amaro si
ricollega alla volontà divina:
Amar es lo calici! […] Amar es lo calici. Ni mai non pòt, aquel
98
calici, passar sens que lo begam tot.
(‘Amaro è il calice! […] Amaro è il calice. Né poi può, quel
calice, passare senza che lo beviamo tutto.’)
Immagine che compare in Matteo, 26, 42: «Padre mio, se questo calice non
può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà».
Nello stesso romanzo Boudou cita la parabola del seminatore: l’esordio del
ventinovesimo capitolo è traduzione fedele da Luca, 8, 5-8. Il seme è la Parola di
Dio e, come già sappiamo, la Parola di Dio è, metaforicamente, il Verbo d’Oc.
Il grano nel libro sui Catoia è centrale e si carica di significati allegorici.
Quel «Consí pòt nàisser lo gran se lo gran non morís?»99 è una palese allusione a
Giovanni, 12, 24 («se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo;
se invece muore, produce molto frutto»), a sua volta riferimento alla necessità
della Passione.
I versetti di Giovanni sono i più ricorrenti. Bisogna tenere a mente che
proprio il vangelo di Giovanni era stato tradotto in lingua d’oc dai catari, che lo
95
J. BODON, La quimèra, cit., p. 188.
Id., Lo libre de Catòia, cit., p. 107 e ss.
97
Ivi, p. 117.
98
Ivi, p. 122.
99
Ivi, p. 134.
96
87
�consideravano il loro testo sacro di riferimento. Se ne parla ne La Santa Estela
del Centenari, dove si spiega che era «lo sol evangèli que legissián los bolgres
[altro nome dei catari], perque es l’evangèli de l’Esperit».100 Inoltre, ne La
quimèra l’apostolo ed evangelista è presente in quanto autore dell’Apocalisse.
Nel romanzo dedicato ai camisards viene menzionato il miracolo
dell’indemoniato di Gerasa, presente in tutti e tre i vangeli sinottici (Marco, 5, 120; Matteo, 8, 28-34; Luca, 8, 26-39). Nell’episodio, i demoni che possiedono il
corpo di un uomo, grazie all’intervento di Gesù si spostano all’interno di un
branco di porci e si precipitano in massa in mare, affogando.101
Secondo René Girard la caduta dall’alto di una rupe simboleggia un rito, un
sacrificio, come nell’antica Roma la Rupe Tarpea. Per l’antropologo nella
vicenda dei demoni di Gerasa si cela «un abbozzo, e di conseguenza un
annuncio, della Passione».102
L’ieu de La quimèra, dopo aver perso tragicamente l’amata Lilon, sta per
suicidarsi gettandosi da un’altura, ma viene salvato da un «porcatièr» che cercava
uno dei suoi maiali.103 Il guardiano si fa chiamare frate Antonio, come il santo
che allevava un maiale. Più avanti scopriremo pure che tale frate venera «Sant
Porcin» – che «segon la tradicion, qu’es pas l’Evangèli, èra un d’aqueles
porcatièrs de Gerasa, un porcatièr onèst» – e celebra una «messa dels pòrcs».104
IV. 8. Pascal, la fede e la salvezza
Scrive Pascal in uno dei suoi Pensieri che «l’homme n’est qu’un roseau, le
plus faible de la nature, mais c’est un roseau pensant».105 Si tratta di un passo
molto noto sulla fragilità umana, che Boudou richiama in una lettera a Henri
Mouly del 2 novembre 1961, in cui ricorda l’origine alverniate del filosofo e il
suo giansenismo:
100
Id., La Santa Estela del Centenari, cit., p. 218.
L’episodio evangelico è lo stesso che ispirò a Dostoevskij il titolo de I demoni, romanzo in cui ne è anche riportato
un brano in epigrafe (Luca, 8, 32-37).
102
R. GIRARD, Il capro espiatorio, trad. it. di C. Leverd e F. Bovoli, Milano, Adelphi, 1999, p. 277.
103
J. BODON, La quimèra, cit., p. 47 e ss.
104
Ivi, p. 120 e ss. Tra il 1969 e il 1972 Yves Rouquette aveva scritto e fatto musicare la raccolta poetica Messa pels
porcs.
105
B. PASCAL, Pensieri, cit., p. 172, n° 231.
101
88
�Los jansenistas pregavan Dieu davant la Crotz dels braces
estreches. Alara me demandi s’aquò èra pas una influéncia
d’Auvèrnha, per esparnhar lo fust. Coma tanben, se l’argent se
pòt comptar, l’aire se pòt pesar, e la gràcia se deu mesurar. Un
106
bon Dieu auvernhat pòt pas èsser que cuolrimat.
(‘I giansenisti pregavano Dio davanti alla Croce dalle braccia
strette. Allora mi domando se ciò non era un’influenza
dell’Alvernia, per risparmiare del legno. Allo stesso modo, se il
denaro si può contare, l’aria si può pesare, e la grazia si deve
misurare. Un buon Dio alverniate non può essere che taccagno
[ma «cuolrimat» è termine molto più volgare; il riferimento è ad
un cliché regionale].’).
Il fatto che i crocefissi giansenisti fossero “con le braccia strette” era legato
alla credenza nella predestinazione, «perché molti sono chiamati, ma pochi
eletti» (Matteo, 22, 14). Allora, Boudou, ne Lo libre dels grands jorns, riflette
sulla celeberrima “scommessa su Dio” e si chiede se valga la pena di «jogar lo
jòc».107 L’espressione è identica a quella usata da Pascal, che aveva detto «il se
joue un jeu».108
E la fede? Bisogna credere di più e diversamente («creire mai, creire
autrament»), se si vuole scongiurare la disfatta della propria lingua, della propria
esistenza109; bisogna credere a qualcosa per poter vivere, per dare alla vita un
senso («me cal creire per viure»).110
Certo ai preti Boudou non risparmia una satira feroce, ora con l’accusa di
opportunismo («vos sabetz virar del costat que lo vent bufa», “vi sapete girare
nella direzione verso cui il vento soffia”)111, ora con quella di non adempiere ai
doveri previsti, frequentando delle prostitute.112 Condotte che destano perplessità
e che alimentano l’ansia di conoscere una fede più sincera, «una vertadièira
religion».113
Joana de Caste, nei Contes del Balssàs, la fede vorrebbe addirittura
rinnegarla, perché da tempo attende invano dalla Madonna un miracolo: riavere il
figlio Francés. La Vergine le risponderà che il giovane non prega e che «degun se
106
In Letras de Joan Bodon a Enric Mouly, cit., p. 171.
J. BODON, Lo libre dels grands jorns, cit., p. 79. Lo darrièr jòc è anche il titolo di una poesia boudouniana del
1970, da leggere nel senso di ultimo e disperato tentativo di rivendicazione occitanista: in Id., Poèmas, cit., p. 93.
108
B. PASCAL, Pensieri, cit., p. 524, n° 682.
109
J. BODON, Lo libre dels grands jorns, cit., pp. 114-115.
110
Id., La quimèra, cit., p. 159.
111
Id., La grava sul camin, cit., p. 109.
112
Id., Lo libre dels grands jorns, cit., p. 123.
113
Id., La grava sul camin, cit., p. 111.
107
89
�sauva pas contra son voler».114 Nessuno si salva contro il suo volere: non solo.
Ne Lo libre de Catòia nonno e nipote fanno a gara quanto a devozione, sfiorando
l’anacoretismo, eppure l’uno morirà tra i tormenti fisici e l’altro finirà in guerra.
Forse la verità è che la fede, semplicemente, non può bastare. Servono
anche le altre due virtù teologali, la speranza («çò que te manca, mon pòble, es
benlèu l’esperança»)115 e la carità, l’amore cristiano, come ricorda san Paolo
nella Prima lettera ai Corinzi (13, 2), citata ne La quimèra:
Quand aguèssi lo don de profecia, quand coneguèssi totes los
misterìs e totas las sciéncias, quand aguèssi tota la fe, una fe de
116
deportar las montanhas, se ai pas la caritat non soi res.
(‘Quando avessi il dono della profezia, quando conoscessi tutti i
misteri e tutte le scienze, quando avessi tutta la fede, una fede
da spostare le montagne, se non ho la carità non sono niente.’)
Boudou impiega tutto questo materiale religioso in senso traslato: al netto
dell’ironia che serpeggia sottotraccia spesso e volentieri, è dell’occitano che sta
parlando e, attraverso l’occitano, degli oppressi di ogni luogo e tempo. Non è
certo un caso che i personaggi sacri che sembrano essergli più vicini siano
proprio quelli più sofferenti: il Christus patiens, la Mater dolorosa e Giobbe.
Ci si può, dunque, salvare? Lo scrittore pare suggerirci una risposta
negativa. Non c’è – dice il narratore de Las domaisèlas – da fare affidamento su
alcun «Sauvador suprèm», né da contare su un qualche «Cesar», né, infine, da
sperare in un Jaurés.117 Perché «lo purgatòri existís pas»118 e perché – come
annotava Simone Weil – «il faut préférer l’enfer réel au paradis imaginaire».119
Nel prossimo capitolo, l’ultimo, torneremo a parlare – tra le altre cose – di
questi stessi temi, ma nell’ottica più estesa di un confronto con altri scrittori, in
particolare con gli italiani Vittorini e Pavese.
114
Id., Contes dels Balssàs, cit., pp. 95-96.
Id., La quimèra, cit., p. 209.
116
Ivi, p. 61.
117
Id., Las domaisèlas, cit., pp. 96-97.
118
Id., Contes dels Balssàs, cit., p. 51.
119
S. WEIL, L’ombra e la grazia, trad. it. di F. Fortini e testo fr. a fronte, Milano, Bompiani, 2002, p. 96.
115
90
�V. LETTERATURA COME MONDO
Canto a España y la siento hasta la médula, pero antes que
esto soy hombre del mundo y hermano de todos.1
FEDERICO GARCÍA LORCA
V. 1. Boudou e Lorca
In
quest’ultimo
capitolo
tenteremo
una
sorta
di
esplorazione
(necessariamente parziale) di quello che poteva essere l’immaginario letterario di
Jean Boudou. Purtroppo dovremmo basarci perlopiù su testimonianze indirette –
segnaleremo le poche eccezioni di volta in volta, di alcune abbiamo già detto
(come Heine e Pascal) – e non saremo in grado di dire esattamente quali opere di
uno scrittore egli avesse letto, e se in originale o tradotte.
Il nostro testimone principale è Yves Rouquette (1936-2015)2 – poeta,
militante occitanista, nonché amico di Boudou –, che in occasione di una mostra
da lui curata insieme ad altri, per il Museo di Saint-Laurent-d’Olt nel 1993 (e
ripresentata nel 2016 dal Cirdòc a Rodez), parlando degli autori prediletti dal
nostro, stila questo elenco: Dick, Böll, Kafka, Asimov, Cioran, Vittorini,
Bradbury, Steinbeck, Lovecraft, (Malcolm) Lowry, Simak, Pavese, Hemingway.
Lo stesso Rouquette in un articolo definì Boudou «un lecteur insatiable»:
Toute sa vie, il lira avec una constance et un écletisme singulier
la littérature d’òc, les grands auteurs français ou les romans de
gare avec une prédilection pour les romanciers américains, la
science-fiction; il aura beaucoup médité à propos de Lorca,
Kafka, Dostoïevski, Hemingway, Heine et bien d’autres. Ces
lectures le nourissent en tant qu’écrivain, lui ouvrent un champ
3
de réflexion beaucoup plus vaste que le Ségala ou l’Aveyron.
1
“Canto la Spagna e la sento fino al midollo, ma prima di questo sono cittadino del mondo e fratello di tutti”. Da
un’intervista di L. BAGARÍA, Diálogos de un caricaturista salvaje, pubblicata su «El Sol», il 10 giugno 1936, p. 5 (ora
disponibile su hemerotecadigital.bne.es).
2
http://fr.wikipedia.org/wiki/Yves_Rouquette.
3
Y. ROUQUETTE, Jean Boudou: ni poète, ni paysan?, cit., p. 78.
91
�Notiamo, tra gli altri, il nome di Lorca. A La casada infiel (da Romancero
gitano) si rifà La femna maridada (da Frescor de Viaur). Non si tratta di una
traduzione, ma di una variazione sul tema. Si vedano i primi versi boudouniani:
Nos trobèrem a la fièira / sul mercat de la polalha. / Ieu la
4
cresiài domaisèla, / pr’aquò èra maridada.
(‘Ci trovammo alla fiera / sul mercato del pollame. / Io la
credevo signorina, / ma era sposata’)
E i primi del poeta andaluso:
Y que yo me la llevé al río / creyendo que era mozuela, / pero
5
tenía marido.
Il romance di Lorca, che è lungo il doppio e ha molti più particolari
sensuali, differisce innanzitutto nel luogo dell’incontro (il fiume, non la fiera del
pollame). Qui è l’uomo a non volersi innamorare e la donna a dire di essere
signorina, mentendo di proposito (ultimi versi, 52-55):
Y no quise enamorme / porque teniendo marido / me dijo que
6
era mozuela / cuando la llevaba al río.
In Boudou, invece, l’uomo è innamorato e la donna chiarisce l’impossibilità
dell’amore perché ha già marito (vv. 23-26):
Mas me mordiguèt las maissas / quand li diguèri que l’aimavi…
7
/ Me diguèt qu’èra maridada, / ieu, la cresiái domaisèla.
(‘Ma mi morse le guance / quando le dissi che l’amavo… / Mi
disse ch’era sposata, / io, la credevo signorina.’)
V. 2. La Spagna nel cuore
In una lettera a Henri Mouly del 10 aprile 1941, un Boudou ventenne
confidava di amare più «l’espanhòl e la poesia espanhòla que lo francés e la
poesia francesa», e di ammirare moltissimo i versi di Antonio Machado.8
4
in J. BODON, Poèmas, cit., p. 199.
http://es.wikisource.org/wiki/La_casada_infiel. “E io la portai al fiume / credendo che era signorina, / ma aveva
marito”.
6
Ibidem. “E non volli innamorarmi / perché pur avendo marito / mi disse che era signorina / quando la portavo al
fiume”.
7
J. BODON, Poèmas, cit., p. 199.
8
Letras de Joan Bodon a Enric Mouly, cit., pp. 28-29.
5
92
�Tra la morte di Lorca (nel 1936) e quella di Machado (nel 1939) si era
consumata la tragedia della guerra civile spagnola. La passione per la Spagna e
per i due poeti andalusi è comune a tanti europei nati nel primo quarto del
ventesimo secolo, soprattutto intellettuali di sinistra.
In particolare, viene spontaneo confrontare Boudou (nato nel dicembre del
1920) ad alcuni scrittori italiani quasi coetanei: Leonardo Sciascia (classe 1921) e
Pier Paolo Pasolini (classe 1922).
Scrive Sciascia ne Le parrocchie di Regalpetra, libro del 1956:
Avevo la Spagna nel cuore. Quei nomi – Bilbao Malaga
Valencia; e poi Madrid, Madrid assediata – erano amore, ancora
oggi li pronuncio come fiorissero in un ricordo di amore. E
9
Lorca fucilato. E Hemingway che si trovava a Madrid.
A colpire l’autore siciliano (e con lui diversi altri) era la «Spagna della
fraternità dei poeti, della fraternità dei poeti col popolo»: quel popolo «che
avrebbe dato inizio alla Resistenza europea».10 Così, «la guerra di Spagna […] è
stata un crogiuolo», di cui rimane «l’oro puro […] della verità» e «della
letteratura, che della verità è figlia».11
Per Pasolini l’incontro con gli autori spagnoli risale al periodo da studente
all’Università di Bologna, dove, iscritto a Lettere, ebbe modo di frequentare i
corsi di Filologia romanza di Amos Parducci, che gli faranno conoscere la lirica
provenzale e gli daranno un saggio della lingua e della letteratura spagnola.12
L’interesse per la Spagna e lo spagnolo maturò negli anni di Casarsa e
dell’Academiuta di Lenga Furlana, quando il giovane Pasolini pensava e
lavorava ad un felibrismo friulano. Presto si accorse dell’esistenza di «piccole
patrie di lingua romanza (quali la Provenza, i Grigioni, la Catalogna, il Friuli)» e
quindi di appartenere «ad una più grande realtà culturale europea».13 Leggendo in
traduzione italiana (di Carlo Bo) i lirici spagnoli, Pasolini nel 1945 preparò le
9
Cit. in N. TEDESCO, “Avevo la Spagna nel cuore” (Sciascia e la Spagna), introduzione a L. SCIASCIA, Ore di
Spagna, con fotografie di F. Scianna, Milano, Bompiani, 2000, p. 5.
10
L. SCIASCIA, Ore di Spagna, cit., p. 29.
11
Ivi, p. 77.
12
M. A. BAZZOCCHI, E. RAIMONDI, Una tesi di laurea e una città, in P. P. PASOLINI, Antologia della lirica
pascoliana. Introduzione e commenti, a c. di M. A. Bazzocchi, Torino, Einaudi, 1993, p. IX.
13
R. CORTELLA, Percorsi romanzi nell’opera di Pier Paolo Pasolini, Pordenone, Edizioni Concordia Sette, 1998, pp.
14-18.
93
�Hosas de lenguas romanas14, «dodici poesie “quasi” spagnole» – pubblicate
postume, nel 1976 – in cui Jiménez, Machado e Lorca vengono rimodellati.15
Va sottolineato il fatto che sia Sciascia che Pasolini furono, come Boudou,
uomini di sinistra lontani dall’ortodossia comunista e lo stesso Machado spiegava
il materialismo marxista «sul fondamento platonico-cristiano e popolare
d’ascendenza unamunesca e tolstoiana»16, per dirla con parole di Oreste Macrì.
Che non sia comunista Boudou lo ribadirà per bocca di uno dei suoi tanti
alter ego, l’Enric Savinhac de La grava sul camin. Costui viene percosso dai
compagni di viaggio perché indossa il berretto («lo calot») con la stella rossa, un
berretto che pure apprezza: «soi pas comunista, non, mas lo calot m’agradava».17
L’uomo non avrà condiviso appieno l’ideologia, ma possiamo supporre che una
qualche simpatia per il socialismo rivoluzionario la serbasse:
E per me donar de vam cantavi L’Internacionala, qu’aviá
18
apresa del temps de la guèrra d’Espanha.
(‘E per darmi coraggio cantavo L’Internazionale, che avevo
imparato all’epoca della guerra di Spagna’).
Anche Boudou, dunque, aveva “la Spagna nel cuore”, per ragioni al
contempo di estetica poetica e di sensibilità politica. Da occitano, poi, è normale
che egli finisca per fraternizzare con il popolo catalano, geograficamente,
linguisticamente e storicamente vicino. Così, ne La quimèra, ad un certo punto19
compare una canzone della tradizione catalana, El rossinyol.20
V. 3. Boudou e Vittorini
Elio Vittorini – l’unico italiano, insieme a Cesare Pavese, ad esser stato
incluso nell’elenco di Yves Rouquette – fu “fascista di sinistra” fino al 193621: la
guerra di Spagna si rivelò, anche per lui, «scuola», fonte di «un’educazione
14
Ora in P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, vol. II, a c. di W. Siti, Milano, Mondadori, 2003.
S. VATTERONI, Pasolini e la lingua inventata. Appunti su Hosas de lenguas romanas (1945), in Studi offerti ad
Alexandru Niculescu dagli amici e allievi di Udine, a c. di S. Vatteroni, Udine, Forum, 2001, pp. 276-283.
16
O. MACRÌ, Introduzione, in A. MACHADO, Poesie scelte, trad. it. e a c. di O. Macrì, Milano, Mondadori, 1996, p.
XVIII.
17
J. BODON, La grava sul camin, cit., p. 50. [Si veda pure la poesia L’Estèla Roja, in Id., Poèmas, cit., p. 183 e ss.].
18
Ivi, p. 84.
19
Id., La quimèra, cit., p. 383.
20
http://ca.wikipedia.org/wiki/El_rossinyol.
21
M. CORTI, Prefazione, in E. VITTORINI, Le opere narrative, vol. 1, a c. di M. Corti, Milano, Mondadori, 1974, p.
XXVI.
15
94
�politica»22. E per questo non deve sorprendere che proprio egli sia stato, insieme
ai già ricordati Bo e Macrì, uno dei primi traduttori italiani di Lorca.23
Vittorini intrattenne una corrispondenza epistolare con Ernest Hemingway,
scrittore che visse e raccontò la guerra civile spagnola24 (e autore che il siciliano
stimava enormemente, stima condivisa da Boudou e tanti altri – più o meno –
coetanei) e che era solito trascorrere periodi di vacanza in Italia.
In una lettera dell’8 marzo 1949 Vittorini gli si descrisse (in italiano) così:
Mi sono sempre rifiutato di pormi da un punto di vista
ideologico. Per me comunismo significava sviluppo delle
libertà democratiche. E accettavo di essere coi comunisti per la
stima che avevo di quanti ne avevo conosciuti sotto
25
l’oppressione e nella lotta contro l’oppressione.
Come per Boudou, non si trattava di ostentare l’appartenenza ad un partito
sventolando per aria una qualche tessera, in quanto «l’odio nostro per il fascismo
era anche odio per la tessera fascista e insofferenza per ogni specie di tessera».26
Per dirla con Maria Corti, Vittorini del comunismo subisce il fascino «della sua
forza rivoluzionaria e costruttiva»; lo scrittore siciliano – come quello rouergate
– non è “culturalmente marxista”, perché «il marxista è sicuro di possedere una
verità, egli invece cerca la verità».27
Che cosa della produzione letteraria di Vittorini poteva affascinare Boudou?
Innanzitutto, le tematiche comuni: l’infanzia, la violenza, l’oppressione, la
sofferenza, il viaggio. Entrambi sono scrittori a tensione lirico-mitica, allegorica:
per uno è (soprattutto) la Sicilia la lente attraverso cui vedere il mondo («Sicilia o
mondo era la stessa cosa»28), per l’altro è l’Occitania.
22
E. VITTORINI, Diario in pubblico, a c. di F. Vittucci, Milano, Bompiani, 2016, p. 203.
F. GARCÍA LORCA, Nozze di sangue, trad. it. di E. Vittorini, Milano, Bompiani, 1942.
24
Il riferimento è a For whom the bell tolls (Per chi suona la campana), del 1940, basato sull’esperienza diretta dello
scrittore, corrispondente di guerra in Spagna.
25
E. VITTORINI, Gli anni del “Politecnico”. Lettere 1945-1951, a c. di C. Minoia, Torino, Einaudi, 1977, p. 228.
26
Ibidem.
27
M. CORTI, Prefazione, cit., p. XXXIX.
28
E. VITTORINI, Conversazione in Sicilia, in Id., Le opere narrative, cit., p. 662. E nell’ultima (e incompiuta) opera di
Vittorini, Le città del mondo, la Sicilia si fa luogo addirittura utopico.
23
95
�Boudou con ogni probabilità lesse Conversazione in Sicilia (1941), forse il
più celebre romanzo vittoriniano29 (tradotto anche negli USA, con prefazione di
Hemingway)30. Similmente all’ieu de Lo libre dels grands jorns, il protagonista
del libro di Vittorini, Silvestro, parte in treno per un viaggio carico di significati
profondi, spinto da «astratti furori […] per il genere umano perduto»31.
Come abbiamo già avuto modo di notare, l’infanzia riveste un ruolo
cruciale nella creazione dei Contes. L’arte boudouniana spicca il volo
dall’Albigese e dall’Aveyron: scrivere, per lo scrittore rouergate, significa anche
tornare con la memoria alle storie che da piccolo aveva ascoltato e amato. Così,
Silvestro va alla ricerca del tempo perduto nell’isola in cui nacque, torna a far
visita alla madre, «in Sicilia tra i fichidindia e lo zolfo, nelle montagne».32
Come ha evidenziato Maria Corti, «Vittorini ama dei suoi personaggi ciò
che essi allegoricamente o miticamente o utopisticamente rappresentano e
dicono, non ciò che sono».33 E quanto assomigliano ai personaggi di Boudou i
siciliani incontrati in Conversazione in Sicilia e così descritti:
Sempre pronti, tutti, a veder nero… […] Sempre sperando
qualcosa d’altro, di meglio, e sempre disperando di poterla
avere… Sempre sconfortati. Sempre abbattuti… E sempre con
34
la tentazione in corpo di togliersi la vita.
Un romanzo, questo, sul «mondo offeso»35, che, in un’atmosfera quasi
onirica, tratteggia una riflessione sull’uomo con evidenti strascichi di
immaginario cristiano: pure in questo Vittorini e Boudou si mostrano simili.
E allora anche nello scrittore di Siracusa si parlerà di miseria (ad esempio,
la malattia è detta «profonda miseria nella miseria del genere umano operaio»36),
si troveranno echi del Genesi («Eri come Esaù… Avresti dato via la
29
Di Yves Rouquette la traduzione in occitano (linguadociano, precisamente) del romanzo, Conversacion en Sicilia,
edita nel 2002 (Tolosa, Escòla Occitana, numero speciale de «Lo Gai Saber»). Non è da escludere che Boudou l’avesse
letto nell’originale italiano.
30
E. VITTORINI, In Sicily, transl. by W. David, introd. by E. Hemingway, New York, New Directions, 1949.
31
Id., Conversazione in Sicilia, cit., p. 571.
32
Ivi, p. 572.
33
M. CORTI, Prefazione, cit., p. XXIX.
34
E. VITTORINI, Conversazione in Sicilia, cit., pp. 588-589.
35
Ivi, p. 673.
36
Ivi, p. 643.
96
�primogenitura per un secondo piatto di lenticchie»37 o la donna-Eva, «costola di
uomo»38) e ricordi evangelici («chi non ha mai giocato un piccolo scherzo al
proprio simile, scagli la prima pietra»39 o la lavanda dei piedi nell’epilogo40).
Un immaginario cristiano, beninteso, sui generis, in cui si può «credere in
san Giuseppe ed essere socialista»41 senza problemi né contraddizioni di sorta.
Nel suo Diario in pubblico, Vittorini affermò l’«importanza […] culturale» di
Cristo, confessando di aver «smesso di credere nella Sua divinità, ma per
cominciare a credere nella Sua umanità».42 Un pensiero che – alla luce del nostro
capitolo precedente – Boudou avrebbe certamente potuto far suo.
V. 4. Uomini e no
In Conversazione in Sicilia Vittorini scrive che «non ogni uomo è uomo» e
che è «genere umano […] quello soltanto del perseguitato»43. Uomini e no (1945)
pare riprendere questa dicotomia per smontarla. Si tratta del primo romanzo
italiano sulla Resistenza ed è un libro privo di entusiasmo celebrativo.
Il titolo ha due piani di lettura: uno di tipo sessuale, l’altro, il principale, di
tipo morale. Il protagonista, Enne 2, è un capo partigiano che ama Berta, la quale,
però, è sposata. La relazione è impossibile – come in Boudou – ed Enne 2
sfogherà la sua passione con Lorena, per sapere se è «ancora un uomo»44.
Il ruolo di Lorena nei testi boudouniani è solitamente ricoperto da prostitute
e una sorta di prostituta (in apparenza: si rivelerà, invece, essere una trafficante di
droga) è Zobeida, ne Il garofano rosso di Vittorini. Alessio, narratore e
protagonista, è un ragazzo innamorato di Giovanna, una coetanea, ma conoscerà
il sesso con Zobeida, che è più matura (e ricambia l’infatuazione, non chiedendo
alcun compenso: cosa che in Boudou non è riscontrabile).
Alcuni dettagli de Lo libre de Catòia fanno venire in mente Il garofano
rosso. Per esempio, Giovanna sta a Fernanda come Alessio sta ad Amanç,
37
Ivi, p. 602.
Ivi, p. 610.
39
Ivi, p. 676.
40
Ivi, p. 709. Il medesimo episodio evangelico è anche in Boudou, ne La quimèra (p. 59 dell’edizione fin qui citata).
41
Ivi, p. 609.
42
E. VITTORINI, Diario in pubblico, cit., p. 207.
43
Id., Conversazione in Sicilia, cit., p. 646.
44
Id., Uomini e no, in Id., Le opere narrative, cit., p. 744.
38
97
�anch’egli incapace di dare libero sfogo al proprio sentimento, se non riversandolo
in fugaci incontri (a pagamento) con un’altra, «la cosina de Tolosa»45. Zobeida
ricorda ad Alessio la «Madonna a cavallo»46, così come il giovane Catoia rivede
in ogni donna col seno scoperto – anche nella meretrice – «Nòstra Dòna del
Lach»47.
Ma torniamo ad Uomini e no. Dicevamo che il titolo presenta un piano di
lettura in senso morale. Ci si chiede il perché delle bombe e delle uccisioni48, per
chiunque le bombe le lanciasse e per chiunque le uccisioni le compisse («non si
poteva chiedere perché che per tutti insieme»49); ci si chiede che cosa sia proprio
di un uomo:
L’uomo, si dice. E noi pensiamo a chi cade, a chi è perduto, a
chi piange e ha fame, a chi ha freddo, a chi è malato, e a chi è
50
perseguitato, a chi viene ucciso.
E che cosa invece non lo sia:
Abbiamo i tedeschi […]. Abbiamo i fascisti. E che cos’è tutto
questo? Possiamo dire che non è, questo anche, nell’uomo? Che
51
non appartenga all’uomo?
Vittorini si domanda, insomma, come sia possibile dividere la (oltremodo
complessa) realtà umana secondo una polarità assoluta. E chiude il romanzo con
una scena fortemente in contrasto con il sentire comune del tempo: dei partigiani
rinunciano ad ammazzare un tedesco perché scorgono in lui una «faccia triste,
persa, una stanca faccia di operaio», non il volto trionfante di un conquistatore.52
Si ricorderà – ne parlammo nel primo capitolo – che ne La grava sul camin
l’ieu, di ritorno dal Service du Travail Obligatoire, viene accusato di
collaborazionismo con i nazisti e di non aver adempiuto al dovere di ogni patriota
francese: difendere la propria nazione e massacrare l’invasore.
45
J. BODON, Lo libre de Catòia, cit., p. 254.
E. VITTORINI, Il garofano rosso, in Id., Le opere narrative, cit., p. 368.
47
J. BODON, Lo libre de Catòia, cit., pp. 255-256.
48
E. VITTORINI, Uomini e no, cit., p. 759.
49
Ivi, p. 810.
50
Ivi, p. 876.
51
Ibidem.
52
Ivi, p. 919.
46
98
�Tuar de bòchas! Tuar de bòchas! Mas son pas de bèstias, los
bòchas. Las mamàs lors se ploravan coma las nòstras quand de
novèlas negras venián del front. Las jovenas se risián al primièr
bufal de prima. Los dròlles pichonèls pescolhavan dins l’aiga
coma los d’aicí e s’encanissavan per tres o quatre bolas coma
53
totes avèm fach.
(‘Ammazzare dei crucchi! Ammazzare dei crucchi! Ma non
sono delle bestie, i crucchi. Le loro mamme piangevano come
le nostre quando dal fronte venivano cattive notizie. Le giovani
ridevano al primo soffio di primavera. I ragazzini sguazzavano
nell’acqua come quelli di qui e litigavano per tre o quattro palle
come abbiamo fatto tutti.’).
Sempre ne La grava sul camin, a proposito della miseria post ‘45, il
narratore osserva gli operai «totes morrenegras» (“tutti con la faccia nera”; da
non escludere anche il significato figurato di “scuri in volto”) e le donne costrette
al meretricio per racimolare qualche soldo.54
Vittorini ne Il Sempione strizza l’occhio al Frejus – seppur con un tono
quasi da favola, lontano dal realismo del libro di Boudou – mostra un ritratto
analogo delle difficoltà economiche del dopoguerra, in cui una ragazza teme di
dover «fare la puttana»55 per poter sopravvivere e un operaio può essere
soprannominato «Muso-di-fumo».56
V. 5. L’America riscoperta
Con l’antologia Americana (1941) Elio Vittorini era stato il principale e uno
dei primi promotori italiani della letteratura anglosassone d’oltreoceano. Insieme
– tra gli altri – a Montale, Moravia e soprattutto Pavese, tradusse autori
grandissimi come Poe, Hawthorne, Melville, Twain, Henry James, London,
Fitzgerald, Hemingway, Faulkner, Steinbeck e Fante.
Fu «un viaggio di scoperta, fervido e a volte avventuroso», che produsse
«lentamente un travaso bidirezionale fra attività di traduzione e di creazione».57
Già nel 1938 Vittorini illustrava il carattere esemplare di quell’universo ai suoi
occhi attenti di lettore, oltre che di scrittore:
53
J. BODON, La grava sul camin, cit., p. 56.
Ivi, p. 47.
55
E. VITTORINI, Il Sempione strizza l’occhio al Frejus, in Id., Le opere narrative, cit., p. 1001.
56
Ivi, pp. 940-941.
57
M. CORTI, Prefazione, cit., p. XXXVII.
54
99
�In questa specie di letteratura universale ad una lingua sola,
ch’è la letteratura americana di oggi, si trova ad essere più
americano proprio chi non ha in sé il passato particolare
dell’America, la terra d’America, e più è libero da precedenti
storici locali, e più insomma è aperto con la mente alla civiltà
comune degli uomini.58
Bertrand Guibert ha scritto che Boudou, avendo viaggiato tanto in vita sua,
non poteva condividere una visione partigiana della realtà. Cosicché «son
humanisme l’éclaire jusqu’à une talvera assez haute»59. E la talvera boudouniana
si estende senz’altro almeno fino all’America. Nella lista riportata all’inizio di
questo capitolo, gli autori statunitensi non solo non mancano ma risultano in
netta maggioranza (dalla fantascienza di Dick, Bradbury e Simak, nonché del
naturalizzato Asimov, ai Nobel per la letteratura Steinbeck ed Hemingway,
passando per Lovecraft).
Sia che narri di cose autobiografiche – e lo scrittore stesso in una lettera
dichiara di non aver mai potuto far altro60 – o che tragga ispirazione dalla storia,
Boudou «pense à la recherche et l’analyse des autres cultures», tentando di capire
«l’évolution de la société occitane en observant les autres vivre», con uno
sguardo pieno di tolleranza che lo rende un umanista convinto.61
Così basterà sostituire la Francia (o il Sud della Francia, se si preferisce)
all’Italia e viceversa, per poter attribuire questo pensiero di Cesare Pavese – che
si laureò in Lettere a Torino presentando una tesi sul poeta americano Walt
Whitman62 – allo scrittore rouergate: «noi scoprimmo l’Italia […] cercando gli
uomini e le parole in America, in Russia, in Francia, nella Spagna».63
V. 6. Boudou e Pavese
Ciò che sembra legare Boudou a Pavese è la medesima Weltanschauung
pessimista, la comune e sofferta concezione dell’umanità. Innanzitutto, colpisce
58
E. VITTORINI, Diario in pubblico, cit., p. 101.
B. GUIBERT, Jean Boudou, visionnaire et humaniste, cit., p. 82.
60
Lettera del 14 dicembre 1973 indirizzata a tale Descomps, in Joan Bodon: documents, cit., p. 60.
61
B. GUIBERT, Jean Boudou, visionnaire et humaniste, cit., pp. 85-66.
62
http://www.treccani.it/enciclopedia/cesare-pavese/. Si veda pure http://www.gozzanopavese.com (Centro Studi
Gozzano Pavese).
63
C. PAVESE, La letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi, 1990, p. 223.
59
100
�la natura viscerale del rapporto con la propria terra (rapporto piuttosto diverso da
quello, pur profondo, vissuto da Vittorini, perché decisamente più travagliato).
Ogni scrittore culla delle ossessioni e sia la scrittura di Pavese che quella di
Boudou sono alimentate da ricorrenti immagini prese dall’ambiente natale e dal
background familiare (e, per il rouergate, anche dalla situazione della propria
lingua materna). Così annotò il piemontese sul suo diario (11 ottobre 1935):
Che tutte le mie immagini non siano altro che uno
sfaccettamento [sic!] ingegnoso dell’immagine fondamentale:
quale il mio paese tale io? Il poeta sarebbe un’immagine
impersonata, inscindibile dal termine di paragone paesistico e
64
sociale del Piemonte.
L’Aveyron e i suoi altopiani come il Piemonte e i suoi colli: nelle pagine
dei due autori a dominare è il mondo della campagna e quello dei «suoi margini
dove il selvatico riprende terreno»65; il mondo dove si fatica ogni giorno – si
trigòssa, direbbe Boudou – per poter raccogliere dei frutti, dove Lavorare stanca
e «buoi e persone son tutta una razza»66.
Come in Boudou, in Pavese l’identificazione dell’uomo con la propria terra
d’origine è totalizzante. Leggiamo nel testo significativamente intitolato La
Langa, dalla raccolta pavesiana Feria d’agosto:
Ero io stesso il mio paese: bastava che chiudessi gli occhi e mi
raccogliessi […] per sentire che il mio sangue, le mie ossa, il
mio respiro, tutto era fatto di quella sostanza e oltre me e quella
67
terra non esisteva nulla.
L’identificazione è tutt’altro che agevole e pacifica. Abbiamo già visto che
il tipico personaggio boudouniano è un vagabondo, un nomade che ha
moltissimo a cuore la propria casa (il proprio ostal), ma che è condannato sempre
a starne lontano, ai margini (alla talvera) e in solitudine.
64
Id., Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, ed. condotta sull’autografo, a c. di M. Guglielminetti e L. Nay, Torino,
Einaudi, 2000, p. 11.
65
Id., La casa in collina, in Id., Tutti i romanzi, a c. di M. Guglielminetti, Torino, Einaudi, 2000, p. 389.
66
Id., I mari del Sud, in Id., Lavorare stanca 1936-1943, ora in Id., Le poesie, a c. di M. Masoero, Torino, Einaudi,
1998, p. 8.
67
In Id., Feria d’agosto, introd. di E. Gioanola, Torino, Einaudi, 2002, pp. 16-17.
101
�Così il protagonista pavesiano è uno «scappato di casa»68 e i personaggi
maschili sono «nati per girovagare su quelle colline, / senza donne»69. A
proposito di donne: anche in Pavese l’uomo s’imbarazza se in compagnia
femminile, perché «tra uomini una ragazza è sempre qualcosa d’indecente»70.
Questo spiega il carattere metaforico (e in chiave esistenzialista) che il
rouergate e il piemontese intendevano dare alla propria produzione. In altri
termini, Boudou parlava di se stesso in quanto occitano e, al contempo,
dell’uomo (emarginato, umiliato e offeso) in generale; e, se trattava di storia,
come ne La quimèra, lo faceva solo in apparenza, perché il suo interesse verteva
molto di più sui simboli che sui fatti.
È così pure in Pavese. Ne La luna e i falò, il trovatello narratore e
protagonista – di cui non viene detto neanche il vero nome (lo si chiama
“Anguilla”) – asserisce che «un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di
andarsene via»71, e che «Canelli è tutto il mondo – Canelli e la valle del Belbo –
e sulle colline il tempo non passa»72.
Anche nei confronti della guerra e della seconda guerra mondiale in
particolare, Pavese e Boudou mostrano un’opinione simile, rispettivamente ne La
casa in collina (1948) e ne La grava sul camin (1956). Come il Vittorini di
Uomini e no, i due non scrissero un’opera encomiastica, ma anzi una aspramente
scettica; non solo: a differenza dell’autore siciliano, i loro protagonisti non sono
dei partigiani, ma due personaggi estranei alla lotta di liberazione.73
Si confronti l’explicit del romanzo pavesiano:
Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci
si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il
nemico è qualcuno […]. Guardare certi morti è umiliante. Non
sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per
caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a
terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a
riempircene gli occhi. [...] Ci si sente umiliati perché si capisce
– si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo
68
Id., Il carcere, in Id., Tutti i romanzi, cit., p. 336.
Id., Antenati, in Id., Lavorare stanca 1936-1943, cit., p. 11.
70
Id., La casa in collina, cit., p. 414.
71
Id., La luna e i falò, in Id., Tutti i romanzi, cit., p. 784.
72
Ivi, p. 816.
73
Non sembra, comunque, il caso di trarre conclusioni di tipo politico, né serve ai fini del nostro discorso, soprattutto
vista l’essenza fortemente esemplare – su cui si è già posto l’accento – delle scritture in esame.
69
102
�essere noi […]. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni
74
caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.
Con questo passo del libro di Boudou, che getta un’ombra sul maquis75:
Qual la voliá la guèrra? [...] Que de mòrts, de lausas que se
quilhan, crotz de Lorena, crotz de fèr, e pus luènh, plan pus
luènh sus las planas de l’ivèrn, l’estela roja! De qué servisson
tantas lausas e tantes de simbòls? Clòsca de mòrt non es que
clòsca de mòrt. Se revèrtan jos la tèrra los òsses totes.76
(‘Chi la voleva la guerra? […] Quanti morti, [quante] lapidi che
si erigono, croce di Lorena, croce di ferro, e più lontano, molto
più lontano, sulle grandi pianure dell’inverno, la stella rossa! A
che servono tante lapidi e tanti simboli? Un teschio non è che
un teschio. Sotto terra le ossa si somigliano tutte.’)
V. 7. Il corpo-pane e il sangue-vino
Joëlle Ginestet, al gruppo degli autori prediletti da Boudou fin qui citati,
aggiunge anche Rainer Maria Rilke e Thomas Mann, mostrando – nel suo studio
già largamente menzionato in questa tesi – come lo scrittore rouergate dovesse
conoscere I quaderni di Malte Laurids Brigge77 e La montagna magica78.
Da Rilke e Mann – stando al mitologo e germanista Furio Jesi – Pavese (e,
chissà, forse pure Boudou) attinse una sorta di «religione della morte»,
caratterizzata dalla «frequenza di immagini apocalittiche» e dall’«insistenza sui
motivi di distruzione, che è soprattutto autodistruzione».79
Nell’interpretazione del mito data da Pavese stesso vi è «un nòcciolo
senz’altro religioso»80, e «l’aspetto più personale e profondo» di questo rapporto
– dice Jesi – «sembra consistere nell’immagine del sacrificio».81 Un’immagine
che troviamo vividissima ne La casa in collina:
Non la vita importa a Dio ma la morte. Per commuovere Dio,
per averlo con sé – ragionavo come fossi credente – bisogna
aver già rinunciato, bisogna esser pronti a spargere sangue.
82
Pensavo a quei martiri di cui si studia al catechismo.
74
C. PAVESE, La casa in collina, cit., p. 484.
Letteralmente, “macchia”. Il termine indica in francese il movimento di resistenza e liberazione nazionale durante la
seconda guerra mondiale. Si veda: http://www.treccani.it/vocabolario/maquis/.
76
J. BODON, La grava sul camin, cit., p. 147.
77
J. GINESTET, Jean Boudou, la force d’aimer, cit., p. 76.
78
Ivi, p. 129.
79
F. JESI, Pavese, il mito e la scienza del mito, in Id., Letteratura e mito, Torino, Einaudi, 1981, p. 142.
80
C. PAVESE, Del mito, del simbolo e d’altro, in Id., Feria d’agosto, cit., p. 151.
81
F. JESI, Cesare Pavese dal mito della festa al mito del sacrificio, in Id., Letteratura e mito, cit., p. 169.
82
C. PAVESE, La casa in collina, cit., p. 454.
75
103
�Un sacrificio, poi, che lo scrittore piemontese tragicamente e materialmente
realizzò, col proprio suicidio, nel 1950. E forse mai come nel caso di Pavese
letteratura e vita sono state così indistinguibili. Non c’è suo testo in cui non
compaia il sangue: «la stanchezza, il sapore di sangue tornavano a invadermi»83;
persino le lacrime scorrono «come fossero sangue»84; senza contare i modi di
dire popolari (come «farsi brutto sangue», tornare «il sangue sulla faccia»85).
Nel capitolo precedente si è discusso della violenza e del sacro in Boudou,
in particolare dei “fantasmi” dell’immaginario cristiano presenti nella sua
produzione. Del resto, sia il rouergate che il langhigiano hanno nella civiltà
contadina (cristiana sì, ma anche e, forse soprattutto, parecchio pagana) le
fondamenta – tutt’altro che autoreferenziali – della loro forma mentis, le radici –
tutt’altro che ristrette – della loro cultura.86
Ed è nella civiltà contadina che il sacrificio di Cristo può essere più sentito,
giacché il pane e il vino, corpo e sangue, prima ancora che rappresentare il
sacramento dell’eucaristia, costituiscono (o costituivano?) la principale fonte di
sostentamento. La principale e più umile, da tempo immemore, eredità di «quel
vecchio mondo del culto e dei simboli, della vigna e del grano».87
Così ne La luna e i falò si scrive di qualcuno che «aveva mangiato del pane
e bevuto del vino»88 e ne La casa in collina ci si chiede «quanto sangue […] ha
già bagnato queste terre, queste vigne»89; così Lo libre dels grands jorns e Lo
libre de Catòia sono stati definiti dal sociolinguista Jean-Marie Marconot
rispettivamente «Livre du Vin et Livre du Pain: sang et corps séparés pour la
célébration de la mort-vie»90.
83
Ivi, p. 453.
Id., Vocazione, in Id., Feria d’agosto, cit., p. 114.
85
Id., La luna e i falò, cit., p. 876 e p. 881.
86
Pavese, il 26 febbraio 1950, cioè sei mesi prima di morire, si domandava: «Ma quando una civiltà non è più contadina
quali saranno i rapporti radicali della sua cultura?» (Il mestiere di vivere, cit., p. 391). Siamo dell’avviso che Boudou
dovesse condividere un’ansia simile (si pensi alla satira sul progresso presente nel secondo capitolo de Las domaisèlas e
di cui si è già parlato).
87
Id., La casa in collina, cit., p. 461.
88
Id., La luna e i falò, cit., p. 796.
89
Id., La casa in collina, cit., p. 472.
90
J.-M. MARCONOT, Le thème religieux dans l’œuvre de Bodon (Livre des Grands Jours), Atti del Secondo
Congresso Internazionale dell’Association Internationale d’Études Occitanes, Torino, 31 agosto – 5 settembre 1987, a c.
di G. Gasca Queirazza, vol. 1, Dip. di Scienze letterarie e filologiche dell’Università di Torino, 1987, p. 492.
84
104
�Ma l’immagine della comunione in Boudou ricorre pure ne La quimèra, ad
esempio: «desapartirem lo pan, beurem del meteis vin»91. E ne La grava sul
camin, il protagonista rimpiange «la sabor canina del pan negre de l’amistat, del
pan que s’atalhona coma lo còs de Dieu» (“il sapore selvaggio del pane nero
dell’amicizia, del pane che si spezzetta come il corpo di Dio”), sperando di
tornare a bere del vino in compagnia come prima della guerra.92
V. 8. Dal mito alla letteratura, dalla morte alla vita
In Pavese, come sarà semplice constatare, il vino e la vigna hanno una
valenza simbolica di estrema (diremmo “vitale”) importanza. Basti pensare che la
terza e ultima sezione – esattamente quella in cui egli parla del mito – di Feria
d’agosto e uno dei Dialoghi con Leucò si chiamano La vigna. Tra questi
singolarissimi e modernamente mitologici Dialoghi è altresì da ricordare quello
intitolato Il mistero, in cui Demetra (che simboleggia il grano) conversa con
Dioniso (che raffigura la vigna).93
Boudou accosta il vino alle donne con insistenza ne Lo libre dels grands
jorns. Qui l’ieu afferma che «la tèrra se coneis al vin mas es a la filha que se
coneis la vila»94 (“la terra si conosce dal vino ma è dalla ragazza che si conosce
la città”). Sia per il vino che per le donne viene usato lo stesso verbo, tastar
(“degustare”, “assaggiare”: metaforico e non molto lusinghiero, si capisce, se
rivolto al gentil sesso).95 Rémi Soulié, in proposito, ha ricordato che gli eroi
boudouniani «titubent bien du bar au bordel, de Bacchus à Vénus».96
Anche in Pavese è palese tale accostamento: la donna è vigna, con cui
«bisogna averci fatto le ossa».97 Ma ancora più evidente è il legame che stringe le
donne pavesiane al sangue, donne che, innanzitutto e per la loro natura – in
quanto soggette al ciclo mestruale – «fanno sangue».98 Donne che muoiono
91
J. BODON, La quimèra, cit., p. 65.
Id., La grava sul camin, cit., p. 41.
93
C. PAVESE, Dialoghi con Leucò, introd. di S. Givone, Torino, Einaudi, 1999, pp. 149-154.
94
J. BODON, Lo libre dels grands jorns, cit., p. 23.
95
Ivi, p. 28.
96
R. SOULIÉ, Les chimères de Jean Boudou, cit., p. 49.
97
C. PAVESE, La luna e i falò, cit., pp. 812-813.
98
Id., Primo amore, in Id., Feria d’agosto, cit., p. 52.
92
105
�spessissimo e spessissimo tra dettagli cruenti («era morta e perdeva sangue dalla
bocca»99; «si mise a letto e lo riempì di sangue»100).
Pure nei Contes del meu ostal la morte è violenta e sanguinosa, com’è
evidente da certe frasi: «la mòrt del mond raja e mai rajarà totjorn»; «lo sang
rajava dins la cort del castèl coma lo vin».101 Dove «la mòrt del mond» è un
equivalente de «lo sang» e il verbo rajar sta per “scorrere” (come vino, tra
l’altro). Alla stessa stregua, ne La luna e i falò, «il sangue era corso per quelle
colline come il mosto sotto i torchi».102
Lo spettro dei significati del vino-sangue, però, è larghissimo: è parimenti
accostabile alla vita, oltre che alla morte. Come ha dimostrato lo storico Piero
Camporesi, nella cultura popolare «il vino/sangue» veniva sentito quale «magico
liquore terapeutico».103 Così nei Contes de Viaur uno stregone ne fa un intruglio
fatato104 e l’ieu de La grava sul camin dice di berlo per far abbassare la febbre105.
Ne La quimèra, in un contesto di particolare desolazione, un uomo
minaccia di uccidere la moglie per il fatto di non avere più vino da consumare.106
E in Pavese ritroviamo il vino in una situazione simile, con «la miseria, la
rabbia» per una «vita senza sfogo».107
Si può bere del vino, inoltre, anche per dimenticare qualcosa o per affogare
la propria infelicità in qualche bicchiere. Ed è quello che succede in uno dei
Contes de Viaur, con il giovane e solitario protagonista de La filha de Viaur che
più vede intorno dei coetanei innamorati, più ordina del vino rosso.108
Il vino, come la letteratura, assurge così a possibile «difesa contro le offese
della vita».109 Rieccoli, infine, Boudou, Pavese e Vittorini: fratelli in lettere,
vicini nel raccontare «l’uomo che soffre» e che la cultura cerca di consolare.110
99
Id., La luna e i falò, cit., p. 875.
Ivi, p. 883.
101
In J. BODON, Contes, cit., p. 98 e p. 114.
102
C. PAVESE, La luna e i falò, cit., p. 824.
103
P. CAMPORESI, Il sugo della vita. Simbolismo e magia del sangue, Milano, Garzanti, 1997, p. 8.
104
In J. BODON, Contes, cit., p. 195.
105
Id., La grava sul camin, cit., p. 63.
106
Id., La quimèra, cit., p. 195.
107
C. PAVESE, La luna e i falò, cit., p. 814.
108
in J. BODON, Contes, cit., pp. 164-165.
109
C. PAVESE, Il mestiere di vivere, cit., p. 135 (annotazione del 10 novembre 1938).
110
E. VITTORINI, Diario in pubblico, cit., p. 201.
100
106
�Postilla
Quante persone vivono ancor oggi in una lingua che non è la
loro? Oppure non conoscono neppure più la loro, e conoscono
male la lingua maggiore di cui sono costretti a servirsi? È il
problema degli immigrati, e soprattutto dei loro figli. È il
problema delle minoranze. Problema d’una letteratura minore e
tuttavia anche nostro, di noi tutti: come strappare alla propria
lingua una letteratura minore, capace di scavare il linguaggio e
1
di farlo filare lungo una sobria linea rivoluzionaria?
GILLES DELEUZE, FÉLIX GUATTARI
Questo è il frutto di molti mesi di lavoro. La fatica e lo sforzo richiesti
hanno avuto un peso di certo inferiore al piacere e alla soddisfazione scaturiti
dalla scoperta di una lingua e di uno scrittore che prima ignoravo. Piacere e
soddisfazione che mi auguro di essere riuscito a trasmettere al lettore.
Innanzitutto, si è trattato di un viaggio: fisico, intellettuale e spirituale. Ho
avuto la fortuna di trascorrere due mesi nel Sud della Francia, nell’ambito di un
“Erasmus Traineeship” bandito dall’Università di Ferrara, soggiornando a
Montpellier e raccogliendo presso il Cirdòc di Béziers la stragrande maggioranza
del materiale qui presentato.
Ho conosciuto persone che credono fermamente nel loro passato e che
anche su quel passato intendono fondare il loro futuro. Ho avvertito nelle loro
parole un orgoglio che quasi non pensavo possibile, in un’epoca in cui ciò che ha
sentore di “vecchio” o che non insegue solo il “profitto” – come se non esistesse
nient’altro – viene immediatamente etichettato come “superfluo” e “superato”.
Un marchio di infamia impresso troppo spesso – ingiustamente,
ignobilmente – sul sapere umanistico e sulla cultura non prettamente economica
o tecnologica. Al punto che, in Italia, di recente il dibattito si è persino
concentrato sulla presunta “inutilità” del liceo classico. In tempi di tagli
all’istruzione e di budget ridottissimi per la ricerca, quanti danni arreca
1
G. DELEUZE, F. GUATTARI, Kafka. Per una letteratura minore, trad. it. di A. Serra, Macerata, Quodlibet, 2006, p.
35.
107
�diffondere simili preconcetti nell’opinione pubblica? Che fine fa il pensiero
critico se gestito come fast food? A chi, a che cosa, giova tale abbrutimento?
Ho scelto di studiare Jean Boudou perché ho rintracciato in lui qualcosa di
estremamente attuale. La sua preoccupazione per un intero patrimonio a
repentaglio, la sua ansia per un’estinzione che pare incombente, mi hanno colpito
nell’intimo, mi hanno risvegliato dal torpore e dall’indifferenza generali.
Basta, del resto, leggere qualche giornale o scorrere l’home page di un sito
d’informazione per accorgersi di quanto oggi rischiamo di perdere, se anche i
beni archeologici sono teatro di devastazioni – come a Palmira, in Siria –, se
popoli e nazioni sono in balia di guerre tremende, interminabili, che uccidono sia
adulti che bambini e strappano uomini e donne dalla loro patria.
Questa tesi è stata soprattutto l’occasione per riflettere sul legame esistente
tra l’uomo e il territorio in cui nasce, un legame che si cristallizza nella lingua e
che, tramite la lingua, permea un’intera comunità di persone. Il titolo – «L’òme
que èri ieu». Jean Boudou (1920-1975) e l’occitano come metafora – si spiega,
perciò, come atto di fedeltà nei confronti di un’alta visione della letteratura,
sincera “testimonianza” nel nome della verità e contro l’oblio.
Così l’occitano è una “metafora”, alla stessa stregua della Sicilia
nell’interpretazione di Sciascia.2 E nel sentirmi vicino a Boudou, nel sentirmi
solidale con la “questione occitana”, di sicuro un ruolo importante lo riveste il
fatto che io sia siciliano – e siciliano emigrato, per giunta – e che in famiglia io
da sempre parli il dialetto, fonte inesauribile di espressività per il mio italiano.
Mutatis mutandis, chi parla occitano può parlare un francese più ricco di
sfumature. Gran parte della bellezza del mondo in cui viviamo risiede in una
straordinaria ma precaria varietà, varietà di cui l’uomo è espressione nella sua
complessità irriducibile eppure universale, come nella celebre frase di Terenzio
«homo sum: humani nihil a me alienum puto».3
2
L. SCIASCIA, La Sicilia come metafora, intervista di M. Padovani, Milano, Mondadori, 1989, p. 78:
«C’è stato un progressivo superamento dei miei orizzonti, e poco alla volta non mi sono più sentito siciliano, o meglio,
non più solamente siciliano. Sono piuttosto uno scrittore italiano che conosce bene la realtà della Sicilia, e che continua
a esser convinto che la Sicilia offre la rappresentazione di tanti problemi, di tante contraddizioni, non solo italiani ma
anche europei, al punto da poter costituire la metafora del mondo odierno.»
3
PUBLIO TERENZIO AFRO, Il punitore di se stesso, introd. di D. Del Corno, trad. it di G. Gazzola, testo latino a
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T
www.treccani.it
U
www.univ-montp3.fr
V
www.villecomtal.fr
www.ville-rodez.fr
118
�Ringraziamenti
Sento il dovere di ringraziare Monica Longobardi per il costante sostegno e
la lucida guida in tutti questi mesi di lavoro e di ricerca: se il risultato si presenta,
in qualche modo, degno di considerazione è anche merito suo.
Ringrazio vivamente tutto il personale del Cirdòc di Béziers, dal direttore
Benjamin Assié all’amministratrice Inès Clément, per avermi accolto come se
fossi un collega e un amico. Un sincero grazie a Marion Ficat, Gilles Bancarel e
soprattutto ad Aurélien Bertrand per avermi dato una mano in più di
un’occasione, risolvendo in particolare i miei dubbi linguistici.
Mercés a Mélanie Laupies per avermi dato la possibilità di seguire alcune
lezioni del suo corso di occitano a Béziers (Università Paul Valéry di
Montpellier); mercés a Gilda Caiti-Russo e Marie Jeanne Verny dell’Università
Paul Valéry di Montpellier e a Joëlle Ginestet dell’Università Jean Jaurès di
Tolosa per aver mostrato interesse e fiducia nel mio “viaggio”.
119
�120
�
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Title
A name given to the resource
«L'òme que èri ieu». Jean Boudou (1920-1975) e l'occitano come metafora / Vincenzo Perez
Subject
The topic of the resource
Bodon, Joan (1920-1975) -- Critique et interprétation
Description
An account of the resource
<p style="text-align: justify;">Mémoire d'étude en italien sur l'œuvre de l'écrivain Jean Boudou réalisé dans le cadre du <em>Corso di Laurea Magistrale in Culture e tradizioni del Medioevo e del Rinascimento (Università degli Studi di Ferrara)</em> sous la direction de Monica Longobardi.</p>
<p style="text-align: justify;">Memòri d'estudi en italian sus l'òbra de l'escrivan Joan Bodon realizat dins l'encastre del <em>Corso di Laurea Magistrale in Culture e tradizioni del Medioevo e del Rinascimento (Università degli Studi di Ferrara) </em>jos la direccion de Monica Longobardi.</p>
Creator
An entity primarily responsible for making the resource
Perez, Vincenzo
Date
A point or period of time associated with an event in the lifecycle of the resource
2016
Alternative Title
An alternative name for the resource. The distinction between titles and alternative titles is application-specific.
« L'òme que èri ieu ». Jean Boudou e l'occitano come metafora
« L'òme que èri ieu ». Jean Boudou e l'occitano come metafora
Source
A related resource from which the described resource is derived
Università Degli Studi di Ferrara
Date Issued
Date of formal issuance (e.g., publication) of the resource.
2017-01-03 Françoise Bancarel
Rights
Information about rights held in and over the resource
© Vincenzo Perez
Format
The file format, physical medium, or dimensions of the resource
application/pdf
1 vol. (120 p.)
Language
A language of the resource
ita
Type
The nature or genre of the resource
Text
monographie imprimée
Identifier
An unambiguous reference to the resource within a given context
http://occitanica.eu/omeka/items/show/14386
Relation
A related resource
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Longobardi, Monica. Directeur de thèse
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